Rai, quello che non si dice più
Stefania Brai*
La “controriforma renziana” che riporta la tv pubblica sotto il diretto controllo del governo. Le nuove nomine del Cda e nessuna opposizione. Anzi, il silenzio totale su quanto sta accadendo alla produzione culturale nel nostro paese. Stefania Brai, responsabile cultura di Rifondazione, apre il dibattito…
In questi giorni sulla Rai e sulle nomine del Consiglio di amministrazione è stato detto di tutto e “ragionato” su tutto. Si è detto della ferrea lottizzazione tra i partiti di governo e Berlusconi; del fatto che le nomine alla velocità della luce servivano a stringere un patto di ferro con Berlusconi in vista della riforma del Senato e delle riforme costituzionali; della scarsissima professionalità di tutti i nominati, e così via.
Vorrei provare allora a iniziare un ragionamento su alcune cose dette, ma anche su quelle “che non si dicono più”. Come inizio, come contributo per una discussione che tenti di non dare nulla per scontato ed irreversibile.
Iniziando dall’affermazione unanime del mondo politico e della stampa: “fuori i partiti dalla Rai”. Bellissima affermazione. Ma come si dovrebbe fare? Le proposte governative sono contenute nella “controriforma” renziana approvata già dal Senato che riporta la Rai – come e peggio di prima del 1975 – sotto il diretto controllo del governo, guidata da un amministratore unico che accentra su di sé tutti i poteri. Un uomo solo al comando, come soluzione di tutti i problemi che la democrazia comporta: al governo, come nella scuola, come nel servizio pubblico radiotelevisivo. Parentesi: ma perché il nuovo direttore generale e futuro amministratore unico è stato votato all’unanimità dal nuovo consiglio di amministrazione? Nessuno ha ritenuto di doversi opporre alla nomina dell’ “uomo del presidente del consiglio” che domani con la nuova legge avrà in mano il potere di vita e di morte sulla più grande e importante “fabbrica” culturale del nostro paese? Non sembra certo un felice e promettente inizio del nuovo consiglio di amministrazione.
La proposta alternativa alla riforma renziana di alcune forze politiche e di alcune associazioni culturali e professionali è una fondazione di diritto privato che non si capisce perché dovrebbe rappresentare un’isola felicemente impermeabile a qualunque ingerenza, politica ed economica.
Sarebbe fin troppo facile obiettare che i partiti che parlano di ingerenza e di lottizzazione sono esattamente quelli che hanno fino ad oggi occupato la Rai, a prescindere dalle leggi in vigore. E che la stanno oggi occupando “militarmente”. Potrebbero non “ingerire”, non lottizzare e non occupare, e il problema sarebbe risolto. Così come sarebbe fin troppo facile obiettare che nessun direttore di rete o di testata ha mai denunciato pubblicamente ingerenze o pubblicamente rifiutato pressioni. Che nessuno di quei giornalisti che si battono per la libertà di espressione si è mai battuto per la libertà e il diritto di milioni di cittadini ad essere informati anche sulle posizioni di forze politiche oggi non presenti nel Parlamento italiano ma certamente nella società e nelle istituzioni.
Ma il discorso è ovviamente più complesso e sarebbe un grave errore addossare responsabilità a singoli o chiedere a singoli di “pagare” per tutti.
La lottizzazione si combatte ovviamente in tanti modi ed occorre trovare le formule legislative più efficaci che ridefiniscano il ruolo del servizio pubblico investendo la struttura aziendale e produttiva, il modello editoriale ed organizzativo ed un nuovo assetto istituzionale. Ma credo che condizione necessaria – anche se ovviamente non sufficiente – sia una riforma del servizio pubblico radiotelevisivo che abbia alla base regole che rendano trasparenti, pubblici e partecipati i criteri di nomina: dai dirigenti ai dipendenti. Per esempio stabilendo che siano i lavoratori della Rai, quelli dell’informazione, le forze sociali, culturali e professionali di tutta la produzione culturale (dall’editoria al cinema, dall’audiovisivo al teatro e alla musica, e così via) a proporre delle rose di nomi sulle quali il Parlamento deve decidere. È ovviamente una ipotesi, ma indicativa di una strada da percorrere.
Ma la lottizzazione e più in generale il controllo di tutta la comunicazione e della produzione culturale crescono incontrollati e incontrollabili man mano che si restringono e si accentrano i poteri in poche mani, che si eliminano tutte le “regole” in grado di garantire autonomia culturale e libertà creativa, le professionalità e non le “fedeltà”, man mano che si uccide qualsiasi possibilità di partecipazione alla gestione e di verifica democratica da parte delle forze sociali, culturali e professionali. Ma anche man mano che cresce il silenzio su questi temi.
Colpisce – in questi anni, ma in particolare in quest’ultimo periodo – il silenzio di molte forze culturali e professionali su quanto sta accadendo al servizio pubblico radiotelevisivo e alla produzione culturale nel nostro paese.
Penso che anche – e forse soprattutto – sulle cause di questo “silenzio” si debba iniziare a ragionare. Così come sul fatto che molte delle proposte fatte – “quando” sono fatte – riguardano aspetti settoriali, parziali e limitati. Sul fatto che si chieda “ascolto” al governo, come non si volesse disturbare, rinunciando alle battaglie. Sul fatto che non si parli quasi mai del ruolo fondamentale che non solo l’informazione, ma – e io penso soprattutto – tutta la programmazione radiotelevisiva hanno sulla formazione del senso comune, sulla conoscenza e consapevolezza delle cose, sulla possibilità o meno di conservare la memoria storica per capire quello che siamo oggi e decidere cosa vogliamo essere domani. Per la formazione di un pensiero unico oppure di una coscienza critica.
Non è vero che “l’Italia non ama la cultura”, come ha detto qualche “intellettuale” e che la Rai sia lo specchio di tutto questo. È esattamente il contrario. È il risultato di quello che la Rai, l’informazione, la produzione culturale di questo paese hanno prodotto in tutti questi anni di assassinio delle intelligenze.
Io credo che un servizio “pubblico” sia realmente tale se – tra le altre cose – è messo nelle condizioni di diventare quello che un tempo chiamavamo “volano dell’industria culturale del paese”. Che vuol dire non solo essere espressione delle tante realtà e soggettività, non solo garantire il massimo di libertà espressiva e creativa, ma promuovere, sollecitare e sostenere, dare voce e volto alle tante potenzialità e alle tante realtà culturali del nostro paese. Vuol dire ridare vita a tutta la produzione indipendente diffusa su tutto il nostro territorio nazionale.
E credo che un servizio “pubblico” sia realmente tale se è messo nelle condizioni di garantire una informazione “completa” come si diceva un tempo, o meglio ancora democratica, cioè un’informazione che rispecchi e rappresenti la società insieme ai “soggetti” presenti e protagonisti nella società e che pluralismo dell’informazione voglia dire dare conto dei diversi punti di vista che quei soggetti esprimono.
Infine penso che un servizio “pubblico” radiotelevisivo sia realmente tale e abbia legittimità democratica se la Rai può diventare finalmente un’azienda realmente autonoma e trasparente, decentrata e partecipata, radicata su tutto il territorio, pluralistica nella sua offerta culturale complessiva, nel rispetto dei tanti “pubblici” e sganciata dalle logiche di ascolto e di mercato, ma invece strettamente finalizzata all’utile culturale e dunque sociale. Sempre come si diceva un tempo, e come penso dobbiamo tornare a dire con forza, la Rai deve diventare un “polmone” che prende dal paese per restituire al paese.
* responsabile nazionale cultura del Partito della Rifondazione comunista/Sinistra europea