Nuove nomine ai vertici di Cinecittà: Chiara Sbarigia presidente e Nicola Maccanico amministratore delegato. Dopo le lunghe battaglie per far tornare pubblici gli studi di via Tuscolana, il ministro Franceschini punta al rilancio in chiave esclusivamente industriale. Chi garantirà gli aspetti della creatività, della formazione, della sperimentazione, della ricerca e dell’innovazione?
Franceschini continua a colpire. Con le nuove nomine di Cinecittà – seguite a quelle del Centro sperimentale di cinematografia – prosegue la lunga marcia di un ministro che dovrebbe essere della cultura ma che forse voleva andare all’industria.
Qualcuno si ricorda le lunghe battaglie dei lavoratori di Cinecittà non solo per la difesa dell’occupazione, ma per la salvaguardia della dignità e professionalità del loro lavoro, dignità e professionalità legati strettamente al ruolo culturale di una struttura produttiva pubblica come quella di Cinecittà?
La loro è stata una battaglia difficilissima non solo contro la cementificazione degli studi di via Tuscolana, ma come dicevano, “per tutti quelli che sanno che il cinema non è solo una forma d’arte, ma un potente mezzo di emancipazione sociale, di crescita culturale, di avvicinamento tra popoli, di promozione di tutte le altre espressioni artistiche e che per fare tutto ciò servono idee, mani e amore, ma non cemento…”.
Chi in quegli anni lottava a fianco di quei lavoratori sosteneva che Cinecittà – allora in mano a gruppi privati tra cui la Bnl – doveva tornare ad essere pubblica per poter svolgere il suo ruolo istituzionale di volano culturale e industriale di tutta la produzione cinematografica, puntando sull’alta qualità e sulla ricerca tecnologica ed artistica, sull’innovazione e sulla sperimentazione grazie anche all’altissima qualità professionale dei suoi lavoratori. Con un progetto pubblico di investimento sulle attività, sui servizi, sulla formazione e sulla ripresa delle attività delle imprese artigiane.
Nel 2017 quella battaglia è stata vinta e Cinecittà è tornata ad essere pubblica. Ma subito si disse che sarebbe iniziata un’altra battaglia, forse ancora più difficile: impedire che la “filosofia” fondamentalmente mercantilistica della legge cinema del ministro Franceschini pervadesse il progetto di rilancio del più grande polo produttivo cinematografico del nostro paese.
La Bnl ha emesso un comunicato stampa con il quale si annuncia l’intenzione di intervenire – attraverso una proposta di partnership di 5 anni – per salvare l’esperienza del cinema Azzurro Scipioni di Roma.
Certo non si può che essere felici se si riesce a salvare un luogo della cultura, e della storia della cultura, come l’Azzurro Scipioni.
Rifondazione comunista si è battuta per questo dal dicembre del 2020, da quando Agosti ha annunciato la chiusura della sua sala e la fine di una esperienza culturale unica non solo per Roma. Chiusura dovuta esclusivamente a motivi economici. Rifondazione comunista ha chiesto l’immediato intervento delle Istituzioni – Comune di Roma, Regione Lazio, Ministero della Cultura – per impedire “la fine di una storia e per garantire la continuità del lavoro culturale di una sala punto di riferimento per tutti i cittadini di Roma”. Silenzio delle istituzioni. Abbiamo promosso un “bombardamento” di mail sempre al Comune, alla Regione e al Ministero, ma sempre silenzio.
E nel silenzio delle istituzioni ecco spuntare la Bnl.
E si resta a dir poco sbalorditi a leggere che l’ex assessore alla cultura del Comune di Roma Luca Bergamo non solo si sente sollevato ma calorosamente ringrazia Luigi Abete e Jean Laurent Bonnafé – cioè la Bnl – per l’intervento di salvataggio dell’Azzurro Scipioni. Cioè per fare quello che lui e il Comune di Roma non hanno fatto.
Ci ricordiamo cosa è stata la Bnl per Cinecittà? I licenziamenti dei lavoratori, i tentativi di cementificazione dei terreni degli studios, i passivi della gestione? Bergamo si sente sollevato? Era così difficile per un assessore alla cultura della Capitale di questo paese fare quello che sta facendo ora una banca?
Rifondazione comunista continuerà con tutti i mezzi a sua disposizione la lotta contro le politiche di privatizzazione dei luoghi e della produzione artistica e culturale e per rilanciare il ruolo dello Stato – in tutte le sue articolazioni – in quello che è un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione: l’accesso alla cultura.
Stefania Brai, responsabile nazionale cultura del Prc/Se
Michela Becchis, responsabile cultura Federazione di Roma del Prc/Se
Roma. Chiude uno dei cinema storici della capitale
C’è un terribile annuncio sulla pagina facebook di Silvano Agosti: “Svendo con urgenza 90 belle poltroncine per sala cinema o teatro, provenienti dal cinema Azzurro Scipioni oramai chiuso”.
Nell’indifferenza generale, nel silenzio di tutte le istituzioni, chiude una sala cinematografica che ha raccontato la storia del cinema d’autore, unico luogo a Roma dove era possibile vedere e rivedere i capolavori delle cinematografie mondiali, uno dei pochi luoghi dove il cinema era ancora vissuto come “arte”.
Chiude dopo quarant’anni per motivi economici, chiude per la solitudine in cui è stato lasciato Silvano Agosti. Chiude perché né il Comune di Roma, né la Regione Lazio, né tantomeno il ministro “della cultura” Franceschini hanno ritenuto di dover intervenire – come è loro dovere per proteggere un luogo della cultura patrimonio della città. E il costo del “salvataggio” non avrebbe certo mandato in rovina nessuna di queste istituzioni.
Non hanno ritenuto di dover intervenire perché si considera la cultura “tempo libero”, perché si chiudono sale cinematografiche e teatrali, sale per concerti, librerie, biblioteche, musei, mostre d’arte e si lasciano aperti i negozi e i centri commerciali. Perché anche per i luoghi della cultura valgono le regole del mercato, perché per chi governa il Comune, la Regione e il Paese le opere sono prodotti, merce.
E perché si ritiene che la formazione si esaurisca nelle ore di insegnamento nelle aule e non ci si cura del deserto culturale che si sta creando fuori dalle scuole.
Rifondazione comunista chiede ancora una volta che il Comune di Roma, la Regione Lazio e il Governo intervengano immediatamente per impedire la fine di una storia e per garantire la continuità del lavoro culturale di una sala punto di riferimento per tutti i cittadini di Roma.
Rifondazione comunista chiede che in tutte le città del nostro paese si approvino finalmente norme urbanistiche che vietino il cambio di destinazione d’uso di tutti i luoghi di produzione, diffusione e fruizione della cultura e dell’arte.
Come dice Agosti: “Non si uccide l’oceano dando coltellate all’acqua. Così non si può uccidere la cultura”.
Pubblicato il 17/03/2021 su Il Manifesto
*responsabile nazionale cultura Partito della rifondazione comunista/Se
Silvano Agosti ha annunciato la chiusura del cinema Azzurro Scipioni di Roma.
Chiude così non solo una sala cinematografica, ma il luogo della storia del cinema, unico luogo a Roma dove era possibile vedere e rivedere i capolavori delle cinematografie mondiali, unico luogo dove si poteva “vendere arte”. E chiude naturalmente solo per motivi economici, perché Agosti non ha più la possibilità di continuare a sostenere le spese dei locali in un periodo di chiusura di tutte le attività culturali. Chiude così un luogo che in un paese civile dovrebbe essere salvaguardato, protetto e sostenuto dallo Stato come un prezioso “bene culturale”, come un museo vivente.
Ancora una volta, nella gestione della pandemia hanno vinto i grandi interessi, ha vinto il mercato. E ancora una volta paga la cultura e i lavoratori della cultura. Si investono milioni in piattaforme “italiane” che altro non faranno se non provocare la chiusura di altre sale cinematografiche e teatrali, di sale per concerti. Nulla si fa per fondi strutturali (non bonus) per i luoghi, le produzioni e per i lavoratori. Le persone possono circolare per andare a lavorare in luoghi che continuano ad essere focolai di contagio, possono uscire per andare nei centri commerciali, ma non per andare in un museo, in una biblioteca, in un teatro, a un concerto. In tutti i luoghi cioè di crescita individuale e collettiva e di relazioni sociali. Cultura come tempo libero, come tempo “inutile”.
Quanto è costata la riacquisizione degli Studi e il ritorno alla gestione pubblica? A quanto ammontano i debiti di Abete e soprattutto quanto è costata allo Stato la sua gestione? Cosa succederà ai lavoratori di Cinecittà? Tante le domande, ma anche le richieste. A cominciare dal “progetto di sviluppo e rilancio” che vogliamo sia reso pubblico e condiviso tra le forze sociali, culturali e professionali che fanno parte del mondo del cinema. Perché ora comincia la battaglia più dura: impedire che la “filosofia” fondamentalmente mercantilistica della legge Franceschini pervada il progetto di rilancio degli studi…
Finalmente gli studi di Cinecittà tornano alla gestione pubblica. Ci sono voluti anni di battaglie e occupazioni da parte dei lavoratori contro la drastica ristrutturazione aziendale messa in atto da Abete, con licenziamenti, cassa integrazione, contratti di solidarietà, eccetera.
Ci sono volute mobilitazioni nazionali e internazionali per salvaguardare gli studi di via Tuscolana e impedirne la cementificazione e con essa la trasformazione di Cinecittà in “sito turistico e commerciale”. Ci sono voluti anni, “morti e feriti” per prendere atto del totale fallimento – istituzionale, culturale ed economico – della gestione privata di un bene pubblico.
Quindi abbiamo vinto. Hanno vinto i lavoratori prima di tutto; hanno vinto tutte le forze sociali, culturali e politiche che sono state al loro fianco in questi anni chiedendo sempre il ritorno alla gestione pubblica come unica soluzione della crisi degli Studi; hanno vinto tutti i cittadini che si sono visti finalmente restituire un loro bene, un bene pubblico.
Prendiamo allora atto della vittoria, importantissima non solo per il cinema e la cultura italiana, ma perché mai come adesso, mai come in questa occasione si tocca con mano la follia delle privatizzazioni di tutto ciò che è “bene e servizio pubblico”; mai come adesso e in questa occasione si dimostra che non sono certo i privati a garantire l’efficienza, la funzionalità e la correttezza delle gestioni aziendali. Per “carità di patria” non accenniamo neanche ai risultati culturali e sociali.
Ma da adesso cominciamo a ragionare del futuro, in modo pubblico e collettivo, per impedire che ancora una volta ci si trovi di fronte a fatti compiuti che passano sulla testa di tutti, lavoratori e cittadini. E per cominciare a ragionare del futuro abbiamo, prima di tutto, bisogno di alcune risposte.
Quanto è costata la riacquisizione degli Studi e il ritorno alla gestione pubblica? A quanto ammontano i debiti di Abete e soprattutto quanto è costata allo Stato la gestione Abete? Cosa è successo – o succederà – con gli studi di Terni? Quanto lo Stato ha deciso di investire nel “progetto di sviluppo” presentato dal presidente e dal consiglio di amministrazione dell’Istituto Luce-Cinecittà al ministro della cultura e a quello dell’economia?
Ma ancora, e forse prima di tutto: cosa succederà ai lavoratori di Cinecittà? Quale è il loro destino all’interno del progetto di sviluppo? Nel comunicato stampa di tre cartelle a questo proposito si dice solo che “punto qualificante del piano è la salvaguardia delle professionalità presenti a Cinecittà”. Già quel “presenti” preoccupa molto e non promette niente di buono.
Per cominciare a ragionare pubblicamente vorrei provare a fare alcune prime riflessioni, a partire solo dal comunicato stampa, perché altro non abbiamo.
E il primo punto è esattamente questo: il “progetto di sviluppo e rilancio” dovrebbe essere reso pubblico e, visto che non lo si è fatto finora, discusso con i lavoratori di Cinecittà e con tutte le forze sociali, culturali e professionali che fanno parte del mondo del cinema e dell’audiovisivo, quantomeno.
Non è una richiesta di elementare percorso democratico, pure sacrosanta. È che non si può avere provocato tali danni umani, culturali e sociali e poi fare finta di nulla. Non si può aver deciso sull’onda tragica dell’euforia per le liberalizzazioni – leggi privatizzazioni – di affidare a un presidente di Banca (e non una qualunque ma la Bnl) la gestione di un bene pubblico del valore di Cinecittà studi e poi avere assistito per anni alla sua distruzione direi sistematica e scientifica senza che nessun governo e nessun ministro muovesse un dito e poi un giorno come se niente fosse, senza neanche dire “abbiamo sbagliato”, annunciare il ritorno alla gestione pubblica. Tutto ciò che è pubblico ha bisogno di trasparenza, di partecipazione e di controllo. E io cittadino voglio sapere quale è il futuro di quel bene che in quanto pubblico è di tutti.
Secondo punto. Nella lunga storia delle battaglie culturali di questo paese Cinecittà è sempre stata individuata come “volano pubblico” della nostra intera produzione cinematografica. Punto di riferimento insostituibile per tutto il cinema non commerciale (non “difficile” come viene in modo orrendo e inaccettabile definito nella nuova legge cinema di Franceschini): per il cinema d’autore, il cinema documentario, il cinema di ricerca culturale e linguistica, il cinema dei giovani autori, il cinema insomma slegato e liberato dalle logiche di mercato e con finalità culturali e dunque sociali. Il cinema che ha fatto grande la nostra cinematografia e anche la nostra industria. È questo che si prefigura in quel piano di sviluppo o piuttosto si sta cercando in modo surrettizio di trasformare gli studi di Cinecittà in un grande volano turistico e di intrattenimento, invece che di cultura?
Terzo ed ultimo punto. Non è difficile leggere tra le righe del comunicato stampa il disegno di trasformazione del nuovo polo Luce-Cinecittà e Cinecittà studi nel nuovo Cnc, in quel Centro nazionale per il cinema richiesto da anni da tutto il settore. Tutto bene quindi? Direi proprio di no perché per il cinema italiano il Cnc è sempre stato un istituto completamente autonomo dal governo e gestito interamente e autonomamente dalle categorie del settore. Qui mi pare si verifichi l’opposto: totale dipendenza dal ministero della cultura e da quello dell’economia e delle finanze; nessun rapporto con le forze sociali, culturali e professionali del settore; gestione totalmente demandata ad un consiglio di amministrazione di diretta emanazione governativa.
Penso allora che non dobbiamo limitarci a rallegrarci della vittoria e pensare che la battaglia sia finita. Adesso comincia una battaglia forse più difficile: quella che tenta di capovolgere quel senso comune dilagante che considera la produzione culturale come produzione di una “merce” utile e omogenea ai meccanismi di mercato e in base al quale si sono trasformate le istituzioni culturali in “aziende” a struttura imprenditoriale le cui finalità sono strettamente ed esclusivamente economiche e commerciali.
La battaglia difficile ora è quella di vigilare ed impedire che la “filosofia” fondamentalmente mercantilistica della legge cinema del ministro Franceschini pervada il progetto di rilancio degli studi di Cinecittà e per vedere invece ribadita e rafforzata la finalità generale e pubblica, dunque sociale e culturale del più grande polo produttivo cinematografico del nostro paese.
Ancora. La battaglia difficile ora è quella di vigilare e impedire che la costituzione di un eventuale Centro nazionale per il cinema avvenga all’interno di una struttura che ha ben altri importantissimi compiti ma certo nessuno dei requisiti che il mondo del cinema ha sempre chiesto per quella istituzione. Ripeto: un ente di diritto pubblico con totale autonomia dal governo e gestione democratica affidata alle forze culturali, professionali e sociali del cinema.
Non credo che in questo paese la coscienza critica sia stata completamente anestetizzata, come pure dicevano oggi alla radio moltissimi ascoltatori a proposito della spiaggia di Chioggia. Anche se il rischio è enorme e i segnali inquietanti. Credo che la battaglia e la determinazione dei lavoratori di Cinecittà dimostrino che è ancora possibile che avvenga quello che si diceva una volta, e cioè che la “lotta paga”, anche se la strada sembra lunga.
Pubblicato su Bookciak Magazine
* responsabile nazionale cultura del Partito della Rifondazione comunista/Sinistra europea
Non c’è una voce dell’intero settore del cinema e dell’audiovisivo che si sia opposta alla nuova legge appena approvata. Il mercato, insomma, ha messo d’accordo tutti. Perché questa è la filosofia di fondo. Non si sostiene più l’opera cinematografica e la creazione artistica, ma le imprese e l’industria. Cosa è successo in questo paese di così devastante nel sistema dei valori delle persone e in particolare delle forze intellettuali per cui non ci si espone più in nessuna battaglia, né di principio né in difesa di diritti?
È il mercato bellezza! E il mercato ha vinto su tutta la linea. È impressionante vedere come Franceschini, cioè Renzi, cioè il mercato abbiamo improvvisamente messo d’accordo tutti. Non c’è una voce di tutto il settore del cinema e dell’audiovisivo che si sia opposta alla nuova legge. Al massimo sono stati chiesti semplici aumenti di finanziamento per alcuni settori di intervento. Improvvisamente tutti dicono che era esattamente questa la legge attesa da anni, anzi da decenni, da tutto il mondo del cinema.
Poiché il testo non è stato modificato nella sostanza rispetto a quello originale di cui avevamo già parlato su Bookciakmagazine, provo solo a contestare alcuni – solo alcuni – degli slogan lanciati dal Ministero e spesso ripresi acriticamente dai giornali, e non solo. A rischio di ripetere cose già dette.
Secondo il Mibact “con il fondo cinema aumentano le risorse del 60%: 150 milioni in più”.
C’è il piccolo particolare che con questo fondo non si finanzia solo il cinema (come è stato fino ad ora) ma anche l’audiovisivo esteso fino a comprendere i videogiochi: vale a dire che perlomeno raddoppiano i soggetti destinatari del fondo. Né si sa quanto sarà destinato a ciascun settore – se per esempio sarà diviso in parti uguali o meno – perché sarà un decreto governativo, e non la legge, a stabilirlo.
Ma c’è di più: avranno la nazionalità italiana e quindi il diritto di accedere al finanziamento le opere (sempre audiovisive e cinematografiche) il cui regista, l’autore del soggetto, della sceneggiatura, la maggioranza degli interpreti principali e degli interpreti secondari, l’autore della fotografia, l’autore del montaggio, l’autore della musica, il costumista, lo scenografo e l’autore della grafica sono di nazionalità italiana o di altro paese europeo. Si finanzieranno cioè con questo fondo film francesi, spagnoli, tedeschi, eccetera purché girati principalmente in Italia e con i componenti la troupe non necessariamente italiani ma residenti in Italia e sottoposti a tassazione italiana. Di quanto ancora si allarga la platea degli aventi diritto? In che senso allora aumentano le risorse?
Ancora: “nasce un meccanismo virtuoso di autofinanziamento”.
Anche questo non è vero. Non è vero perché la legge prevede che i 400 milioni del fondo per il cinema e l’audiovisivo derivino “dal versamento delle imposte ai fini Ires e Iva, nei seguenti settori di attività: distribuzione cinematografica di video e di programmi televisivi, proiezione cinematografica, programmazioni e trasmissioni televisive, erogazione di servizi di accesso a internet, telecomunicazioni fisse, telecomunicazioni mobili”. Vale a dire, per essere chiari, che non c’è nessuna tassa di scopo, nessun onere aggiuntivo per le televisioni e per i colossi delle telecomunicazioni (come è nel sistema francese, per esempio), ma invece oneri aggiuntivi per lo Stato, che rinuncia a una parte delle sue entrate prelevando una quota dell’Ires e dell’Iva – che questi soggetti già versano – per destinarla al cinema e all’audiovisivo. Non sono le imprese a sostenere il cinema e l’audiovisivo ma la fiscalità generale, cioè i cittadini.
Sempre secondo il Mibact “i contributi selettivi sono un aiuto concreto per le promesse del nostro cinema”.
Ci vuole sul serio un bel coraggio nel sostenere che si dà un aiuto concreto per le promesse (?) del nostro cinema destinando il 18 % (ed è il limite massimo, non minimo) dei 400 milioni, vale a dire 72 milioni, a: scrittura, sviluppo, produzione e distribuzione nazionale di opere cinematografiche e audiovisive; opere prime e seconde, giovani autori, film “difficili realizzati con modeste risorse”; start-up; piccole sale; Biennale di Venezia, Istituto Luce Cinecittà e Centro sperimentale di cinematografia; promozione cinematografica e audiovisiva; promozione delle attività di internazionalizzazione del settore, dell’immagine dell’Italia attraverso il cinema e l’audiovisivo; sostegno alla realizzazione di festival, rassegne e premi di rilevanza nazionale e internazionale; promozione delle attività di conservazione, restauro e fruizione del patrimonio cinematografico e audiovisivo; sostegno alla programmazione di film d’essai; sostegno all’attività di diffusione della cultura cinematografica svolta dalle associazioni nazionali di cultura cinematografica, dalle sale delle comunità ecclesiali e religiose (!!!).
Ma di quale aiuto parliamo? Così si uccide definitivamente la possibilità stessa dell’esistenza di una produzione artistica cinematografica.
Ma in realtà questo è il punto di fondo e la base della filosofia di tutta la legge, che non a caso tra gli obiettivi del finanziamento dello Stato indica quello di “facilitare l’adattamento all’evoluzione delle tecnologie e dei mercati nazionali e internazionali”. Infatti, riservata la nicchia del 18% ad un cinema che finora abbiamo definito d’autore o di “qualità” e che adesso chiamiamo “difficile”, tutto il resto è o credito d’imposta alle imprese o finanziamento automatico alla produzione, alla distribuzione e all’esercizio in base agli incassi.
Non si sostiene più l’opera cinematografica e la creazione artistica, ma le imprese e l’industria, e l’intervento dello Stato non sarà più destinato e riservato a far nascere, vivere e far conoscere al pubblico quelle opere che con i soli meccanismi del mercato non vedrebbero mai la luce, ma esattamente all’opposto a premiare quelle opere che più aderiscono a quei meccanismi e quelle imprese che sono già forti sul mercato. Non si incentivano e sostengono le sale che proiettano i film d’autore italiani ed europei, ma al contrario più i film incasseranno più gli esercenti avranno contributi pubblici.
Infine si sostiene che “sparisce la censura di Stato”.
Bisogna dire che fa piacere che finalmente si riconosce che finora si è applicata la censura di Stato. Il problema è però che la censura non sparisce affatto perché si delega al Governo di emanare uno o più decreti (in tutta la legge ne abbiamo contati più di 20 oltre a diverse deleghe al governo) in materia di tutela dei minori sostituendo gli attuali meccanismi con una idea geniale chiamata “responsabilizzazione degli operatori”. Saranno cioè gli operatori cinematografici, sotto il controllo del Ministero, a classificare i “prodotti” per garantire la tutela dei minori. Mi sbaglio o si chiama autocensura obbligatoria?
Allora: dove è finito il Centro nazionale per il cinema per il quale gli autori si sono battuti per anni? Dove è finita la tassa di scopo? Dove sono finite le normative antitrust? Dove sono finite le norme per regolare il rapporto tra cinema e televisione? Come si fa sostenere che questa è la legge da sempre voluta dalle forze culturali, sociali e produttive del cinema? Perché tanto silenzio?
Mi fermo qui. Ma vorrei concludere tentando alcune considerazioni.
Intanto improvvisamente il tanto bistrattato bicameralismo non ha impedito di approvare nel solo giro di un anno una legge di sistema “così attesa”. Verrebbe da chiedersi perché allora fare la riforma della Costituzione e fare finta di abolire il Senato visto che questo governo è riuscito ad emanare leggi che stanno modificando in modo radicale e strutturale il paese facendolo retrocedere di decenni e spazzando via diritti fondamentali e principi costituzionali: dalla legge sul lavoro (mi rifiuto di chiamarla in inglese), alla riforma della scuola, del servizio radiotelevisivo pubblico, dell’editoria, ed ora del cinema. Guarda caso si è intervenuto prima sui diritti del lavoro e poi su tutto ciò che forma le intelligenze e il pensiero critico.
Ma cosa è successo in questo paese di così devastante nel sistema dei valori delle persone e in particolare delle forze intellettuali per cui non ci si espone più in nessuna battaglia, né di principio né in difesa di diritti (fatte tutte le dovute e ovvie eccezioni e chiedendo scusa per il rischio di generalizzazione)? È sufficiente la gravità della crisi economica e il rischio della perdita del lavoro a giustificare l’improvvisa e totale accettazione del senso comune dilagante e la mancanza di opposizione culturale?
Certo non so dare una risposta facile ma credo che è da qui, da un’analisi e da una riflessione su quello che sta accadendo nelle coscienze delle persone che dobbiamo ripartire se pensiamo che questo mondo vada cambiato. E se pensiamo che in particolare alle forze culturali e agli intellettuali spetti il compito enorme dell’elaborazione di un pensiero critico su quale società stiamo – stanno – costruendo.
La mancanza di sicurezza del e sul lavoro. Con l’abolizione dell’articolo 18 e quindi con la paura ad esporsi in battaglie sindacali collettive pena il rischio di licenziamento, ognuno è costretto a pensare alla difesa del proprio posto di lavoro costi quello che costi: anche morire sul o per il lavoro.
Una scuola e una formazione non più finalizzata alla conoscenza e alla crescita individuale e collettiva ma alla preparazione di mano d’opera per il mercato del lavoro.
Una produzione culturale ed artistica uniforme e omologata finalizzata per la maggior parte all’adattamento al mercato e non a risvegliare le intelligenze. La cultura patrimonio solo di chi se la può permettere.
Non più diritti, ma concessioni.
È questo quello che vogliamo?
Humphrey Bogart ne L’ultima minaccia diceva: “è la stampa bellezza, e tu non puoi farci niente”. Pensiamo ormai anche noi di non poter fare niente?
Pubblicato su Bookciak Magazine
* responsabile nazionale cultura del Partito della Rifondazione comunista/Sinistra europea
Ancora una sala cinematografica di Roma che chiude. L’Alcazar è una sala storica, non solo per i suoi 28 anni di vita, non solo perché era una delle due ultime “monosale” rimaste nella capitale, ma perché era un punto di riferimento culturale per il cinema italiano ed europeo. Chiude perché è diventato insostenibile il costo di 50.000 euro l’anno, chiude perché non si ritiene da parte del Comune di Roma che 50.000 euro l’anno siano un investimento “utile” per la città, per la cultura, per i giovani, per il tanto amato e declamato “sviluppo”.
Negli ultimi dieci anni hanno chiuso in Italia 1.150 sale cinematografiche, 45 solo a Roma. Quasi tutte sistematicamente trasformate in negozi, banche, centri commerciali. Così come chiudono i teatri (persino i grandi teatri stabili privati senza i finanziamenti pubblici non riescono a “stare sul mercato”), chiudono le imprese di produzione teatrale e si sciolgono le compagnie. Chiudono le biblioteche e le librerie; vengono sgombrati i centri sociali e i luoghi collettivi di “integrazione”, di produzione e fruizione culturale, di creazione di “comunità”.
E ancora una volta si è costretti a fare appelli al ministro dei “beni e delle attività” culturali, al sindaco di turno o in questo caso al commissario di Roma. Ancora una volta si è costretti a chiedere la clemenza a chi in realtà è la causa di questo genocidio.
Con questo genocidio non si uccidono solo i “luoghi” ma la stessa produzione culturale. Questo governo sta portando a termine un’operazione politica e culturale – iniziata dai governi Berlusconi – di portata “strategica”: distruggere quella “diversità delle espressioni culturali” che una Convenzione dell’Unesco ha ritenuto di dover proteggere e promuovere nel mondo proprio per impedire che la cultura venisse considerata “merce” e come tale lasciata ai meccanismi del mercato. Perché quando è così, il mercato, con le sue “logiche”, di fatto seleziona l’offerta e costruisce una domanda sempre più orientate verso una monocultura egemonica incardinata nei valori oggi dominanti dell’individualismo e rappresentativi degli statuti sociali consolidati. E allora non servono più né le monosale, né le biblioteche, né le librerie, né i centri sociali. Ogni “prodotto” – anche quello culturale, se così è lecito chiamarlo – ha bisogno di una sua catena di distribuzione e dei punti vendita giusti.
Questo governo e questo ministro stanno puntando tutto sullo smantellamento dei diritti (e la cultura per noi è un diritto), sulla loro sostituzione con “regali e mance” da distribuire a discrezione del “principe” e sulla teorizzazione del “mecenatismo”, per quello che riguarda la cultura (cioè sulla privatizzazione dei diritti).
Il bonus di 500 euro concesso da Renzi ai diciottenni da spendere in attività culturali non solo è pura propaganda elettorale (i diciottenni saranno i nuovi “votanti” alle prossime amministrative) ma rischia di essere anche inutile. Perché nel frattempo i veri luoghi della cultura stanno chiudendo.
I 300 milioni complessivi di questo regalo elettorale equivalgono quasi all’intero Fondo unico per lo spettacolo – 406 milioni per il 2015 – cioè al finanziamento pubblico di tutte le attività della produzione, distribuzione, fruizione e promozione della cultura: dal cinema al teatro, dalle fondazioni lirico-sinfoniche alla musica e alla danza, dai circhi alle istituzioni culturali pubbliche, dalla Biennale di Venezia all’associazionismo e alla promozione all’estero.
Insieme agli altri 500 milioni stanziati per le periferie delle città metropolitane sotto lo slogan “la cultura contro il terrorismo”, questi 300 milioni dovrebbero essere invece parte di un intervento strutturale pubblico per mantenere in vita i luoghi di produzione e di fruizione della cultura nel nostro paese, per sostenere le mille attività e produzioni di quel mondo immenso e diffuso che tutti i giorni e su tutto il territorio col suo lavoro creativo ed artistico contribuisce a far crescere i saperi e la conoscenza, a combattere la passivizzazione e la solitudine.
Non servono regali e mance. Non si risolve nessun problema se il ministro o il commissario di Roma concedono la grazia di salvare l’Alcazar oggi, perché domani od oggi stesso sarà un altro luogo, un altro Alcazar a morire.
Serve intanto e subito una legge dello Stato che impedisca il cambio di destinazione d’uso di tutti – tutti – i luoghi della cultura. E già un problema sarebbe risolto. Serve una politica nazionale antitrust che impedisca per esempio che a Roma il circuito delle sale sia in mano a due soli soggetti o che una sola pellicola possa invadere il circuito nazionale occupando più di 1.500 sale.
Serve mettere fine agli interventi occasionali e alle “notti” di qualsiasi colore, servono politiche economiche che consentano ai giovani e a chi ha basso reddito di accedere ad una sala cinematografica, ad un concerto, ad uno spettacolo teatrale, ad un museo, alla lettura dei libri. Serve portare la produzione culturale nelle scuole e le scuole nei luoghi di produzione culturale.
Serve un enorme investimento pubblico per garantire la possibilità di una produzione libera ed indipendente e per rendere reale (cioè per tutti, cioè gratuito) il diritto allo studio, alla formazione e il diritto alla produzione e alla fruizione della cultura.
C’è bisogno di un progetto ambizioso e impegnativo sulla cultura perché, come scrisse ormai tanti anni fa Bernardo Bertolucci, “si possa vedere un film che non esiste, leggere un libro che ancora non è stato scritto”.
* responsabile nazionale cultura del Partito della Rifondazione comunista/Sinistra europea