La caduta del muro di Berlino e la cultura
Stefania Brai*
Quando si parla della caduta del muro di Berlino si parla di fine della guerra fredda, di fine del comunismo e di fine delle ideologie. Credo che si debba partire da qui, dalla cosiddetta “fine delle ideologie”, per capire cosa è successo nella cultura e nella produzione artistica dopo la “caduta del muro”. E io aggiungerei, per quello che riguarda l’Italia, dopo la “Bolognina”, cioè dopo l’inizio della fine del più grande partito comunista d’occidente.
È difficile non cadere nello schematismo e nelle semplificazioni, ma certamente “fine delle ideologie” vorrebbe dire fine di ogni concezione del mondo, fine di ogni orientamento ideale e culturale, fine di ogni complesso di valori e di ogni luogo di costituzione della soggettività collettiva. In realtà, come sappiamo bene, il grande e diffusissimo entusiasmo per la fine delle ideologie altro non è che grande e diffusissimo entusiasmo per la vittoria di una sola ideologia, quella della globalizzazione neoliberista, quella del mercato e della mercificazione globale.
E cardine della globalizzazione neoliberista è il prevalere esplicito e teorizzato dell’economia e della finanza sulla politica: le loro logiche e le loro ragioni come protagoniste uniche dell’intero processo. Allora, tutto ciò che ostacola questa logica va rimosso: assemblee rappresentative, organizzazioni politiche e sindacali, conflittualità sociale e movimenti non sono altro che ostacoli ad un’unica realtà mercantile ed economica. Così come vanno colpiti principi che vanno dalla libertà d’espressione alla libertà di scelta, dal pluralismo culturale alla partecipazione civile, dai diritti di miliardi di individui alla vita stessa della democrazia.
E se la sinistra – italiana ma anche europea – ha tardato e tarda a capire l’importanza strategica della cultura, della produzione cioè di quel bene immateriale che ha così enormi riflessi sulla formazione delle coscienze – ma anche sulla produzione di merci – , e che è dunque possibile strumento della lotta contro il genocidio del mercato, il neoliberismo, le disuguaglianze, le discriminazioni, gli Stati Uniti non hanno perso tempo. Come prima cosa hanno invaso i paesi dell’ex Unione sovietica con la distribuzione gratuita di film americani (arrivavano treni con vagoni pieni di pellicole), ben consapevoli di quanto i modelli proposti da quel cinema, i suoi valori, ritmi e stili estetici e di vita potessero influenzare le coscienze, favorire l’accettazione anche inconsapevole di valori sociali e concettuali, indurre consumi di beni materiali assai spesso carichi anch’essi di contenuti culturali.
E poi hanno condotto a livello europeo – liberi da lacci e lacciuoli – la battaglia per eliminare qualsiasi ostacolo alla penetrazione del cinema americano in Europa fino ad arrivare a circa l’ottanta percento dell’intero mercato europeo. Attraverso il Gatt (1993) e l’Accordo multilaterale per gli investimenti (1997) hanno tentato di inserire la cultura e la produzione culturale nel suo insieme all’interno degli accordi internazionali sul commercio: riducendo cioè la produzione di senso a merce e sottoponendola agli stessi trattamenti economici e alle stesse regole cui sono sottoposte tutte le “merci”. Cercando di impedire in questo modo a ciascun paese di portare avanti, sul proprio territorio, una politica per la cultura. Se cioè la “merce cultura” fosse stata sottoposta solo ed esclusivamente alle regole di un mercato liberato da qualsiasi regola sarebbero spariti i servizi pubblici radiotelevisivi, i sostegni all’editoria, i sostegni alle produzioni teatrali e musicali, alle istituzioni culturali pubbliche, alla produzione cinematografia e così avanti in tutti quei settori dove si produce “conoscenza”.
Se questo non è avvenuto – perlomeno non del tutto – è stato perché per poco più di un decennio hanno resistito in Italia e in Europa i movimenti culturali e sociali che con le loro battaglie sono riusciti ad ottenere vittorie importanti: sottrarre la cultura all’Organizzazione mondiale del commercio con la nascita della Convenzione dell’Unesco “per la Promozione e protezione della diversità delle espressioni culturali”; imporre a livello europeo (la direttiva Televisione senza frontiere) e nelle leggi italiane ostacoli importanti (quote di produzione e di investimenti) all’occupazione dei mercati europei delle opere nordamericane, consentendo così il pluralismo culturale e la difesa e la possibilità di creazione e diffusione delle tante culture europee; garantire l’esistenza dei servizi pubblici radiotelevisivi. Solo per citarne alcune. E a livello mondiale nel 2002 a Porto Alegre si svolgeva il primo Forum mondiale dell’audiovisivo con al centro proprio la difesa delle diversità culturali.
Ma la vittoria dell’ideologia del mercato e la sua fascinazione su gran parte delle sinistre europee, ma in particolare su quella italiana, l’accettazione dei valori imposti dalla globalizzazione neoliberista, l’idea del “governo dell’esistente”, la “fine delle ideologie”, hanno finito per uccidere in Europa e in Italia i riferimenti collettivi – sociali e politici – portatori di speranza di cambiamento. Così piano piano sono morte anche le associazioni e i movimenti culturali europei e anche italiani. Non sono finite certo le lotte: ma tutte parziali, parcellizzate, non collegate tra loro e senza una visione generale. Senza un’idea di cambiamento generale, senza un’idea di un’altra società possibile. Così sono finite le battaglie degli autori europei, così in Italia è passata l’idea del mercato come unico regolatore della vita materiale e della produzione di senso. Si è legata la conoscenza all’impresa e la cultura e la produzione artistica al mercato. Si è accettato che si dismettesse pezzo per pezzo il ruolo dello Stato nella cultura (e non solo, naturalmente). Un tempo si diceva “passivizzazione delle coscienze”.
Pubblicato su Transform
* responsabile nazionale cultura del Partito della Rifondazione comunista/Sinistra europea