Commemorazione della Battaglia del Sonclino
Dino Greco, domenica 8 maggio 2022
Cosa siamo qui a commemorare e cosa ci ricorda questa data, cosa ci spinge a tornare qui, ogni anno, in questa ricorrenza che taluni vorrebbero archiviare come una litania nostalgica che parla solo a qualche reduce?
E perché, invece, quel tempo è così carico di presente, perché quella memoria continua a parlarci, a interrogarci su ciò che è avvenuto e su ciò che abbiamo fatto dello straordinario messaggio di libertà e di dignità che i partigiani e le partigiane, i compagni che hanno combattuto e dato la vita su questi monti, ci hanno consegnato.
Forse non è inutile, in questi tempi confusi, mentre il fantasma del conflitto armato, fino alla guerra totale, torna a materializzarsi e si cancella nella folle corsa al riarmo il solenne giuramento costituzionale del “ripudio” della guerra.
Oggi il valore supremo della pace, quel solenne giuramento con cui si gridava : “mai più” è offuscato e persino vilipeso e torna, cinico, il richiamo alle armi, dimenticando che quando le relazioni internazionali si regolano attraverso il conflitto armato si rischia di tornare nel vortice che settant’anni fa produsse 50 milioni di morti. Con la drammatica aggravante che oggi la guerra si farebbe con armi nucleari e che la posta sarebbe l’annientamento della specie umana.
La Resistenza è stata molte cose:
· è stata la liberazione dall’occupazione nazista;
· è stata la fine del regime fascista, già collassato il 25 luglio del’43 e sopravvissuto nella tragica versione della Repubblica di Salò e delle squadre di torturatori che seminarono orrori soltanto grazie alle stampelle di Hitler;
· è stata la riconquistata libertà, grazie al ruolo decisivo dei partigiani, dei lavoratori, delle popolazioni, delle donne che nella Resistenza ebbero un peso determinante nella sollevazione in armi del popolo italiano che non ha atteso gli eserciti liberatori per sottrarsi al gioco nazifascista.
Ed è bene rammentarlo sempre: i lavoratori, non le classi dominanti compromesse e asservite al regime, non la Corona, non il re e il suo sgangherato seguito che prima consegnarono il potere a Mussolini per poi fuggire dopo l’armistizio e abbandonare il paese e il proprio popolo nelle mani dell’esercito nazista occupante.
Facciamo qualche sforzo di memoria. La Resistenza non iniziò nel ’43, ma ben prima e durò un ventennio, nella lotta clandestina, negli anni bui della repressione più dura, del carcere, del confino di polizia, nella quotidianità dell’opposizione al regime totalitario, dittatoriale che dal 1925, con le “leggi fascistissime”, aveva liquidato ogni forma di democrazia: il parlamento, che dopo l’assassinio di Matteotti ordinato e rivendicato da Mussolini, questi aveva trasformato in un “bivacco di manipoli”; i sindacati, ridotti al silenzio e poi posti fuori legge, i partiti, chiusi con il fuoco insieme a tutti i giornali di opposizione.
Questo ed altro ancora fu il fascismo:
fu il regime totalitario che aveva promosso guerre imperialistiche e perpetrato atrocità indicibili ai popoli d’Etiopia, di Eritrea, di Libia, che aveva sottomesso per regalare alla cosiddetta “italietta proletaria” un posto al sole;
fu il regime che aveva promulgato le infami leggi razziali contro gli ebrei deportati e fatti morire nelle camere a gas e poi bruciati nei forni crematori dei lager di Auschwitz e di Mauthausen.
Improvvisamente, nel 1938, in un paese come l’Italia dove l’antisemitismo non esisteva, gli italiani scoprirono che c’erano anche gli ebrei.
E nel “Manifesto della razza” (luglio ’38) si leggeva:
“Le razze umane esistono… Esistono grandi razze e piccole razze… Il concetto di razza è puramente biologico… Esiste oramai una pura razza italiana… È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti… Gli ebrei non appartengono alla razza italiana”.
Ed ecco l’esito bestiale di queste teorizzazioni:
– furono colpite le condizioni di vita di migliaia di persone con il licenziamento degli ebrei che lavoravano negli uffici pubblici;
– furono cacciati alunni e insegnanti ebrei dalle scuole di ogni grado;
– le loro proprietà furono confiscate e furono trattati come cittadini di serie b all’interno di uno Stato che improvvisamente li rifiutava;
– fu loro proibito di possedere apparecchi radiofonici, di avere il proprio nome sugli elenchi telefonici, di recarsi nelle località di villeggiatura, di praticare quasi tutti i mestieri, di frequentare biblioteche, associazioni sportive o culturali;
– con l’entrata in guerra dell’Italia furono licenziati dalle industrie di interesse nazionale;
– fu vietata la pubblicazione di libri di autore ebreo;
– si stabilì che gli ebrei non potevano prestare servizio militare, essere tutori di minorenni, essere proprietari di aziende di interesse nazionale, di terreni e fabbriche;
– si arrivò a proibire i matrimoni misti, perché gli ebrei non dovevano inquinare il “sangue ariano-italiano” (ad imitazione delle Leggi di Norimberga).
Poi Mussolini compì la sua nefandezza più grande: portò l’Italia in guerra al fianco di Adolf Hitler, della Germania nazista: una guerra costata 55 milioni di morti, in gran parte civili.
Il prezzo pagato dagli italiani fu di 470mila morti.
Mussolini aveva detto con cinismo: “Ho bisogno soltanto di qualche migliaio di morti per potermi sedere da ex-belligerante al tavolo delle trattative”. E gli italiani, con un esercito del tutto impreparato, furono inviati a combattere e a morire su tutti i fronti, con esiti disastrosi, in Grecia, in Russia, in Africa.
Poi la catastrofe, la caduta del fascismo e la ricostruzione del defunto regime nel simulacro della Repubblica di Salò, lo “stato fantoccio” che non sarebbe mai nato se a tenerlo in piedi non ci fossero state le truppe del Terzo Reich.
Ed è in quel periodo, fra il settembre del ’43 e l’aprile del ’45, che le squadre fasciste si distinsero per le violenze inaudite di cui furono protagoniste.
Sono la Legione Muti, la Guardia Nazionale Repubblicana, le SS italiane, composte da volontari e collaborazionisti al diretto comando dei tedeschi e la famigerata Banda Koch, specializzata nelle torture più efferate inflitte ai partigiani catturati. Tra i torturatori c’erano infiltrati, doppiogiochisti, vigliacchi, stupratori, millantatori, assassini, comuni criminali di ogni risma, campioni nelle pratiche più sadiche, arruolati nelle squadracce nere con la più totale licenza di nuocere. E c’è un campionario da brivido: trapanazione di denti, accecamenti, simulazioni di soffocamento, strappamento delle unghie delle dita, spilli sotto la piante dei piedi, sale sulle ferite. Atrocità che i nostri martiri hanno sperimentato, in questa valle, sulla propria pelle.
Questo è stato il fascismo, quello delle origini, nato per combattere le organizzazioni del movimento operaio e contadino; quello che poi si è fatto Stato, con la complicità della grande borghesia industriale e della monarchia sabauda, quello che è divenuto regime dittatoriale aperto che ha cancellato la democrazia.
C’è chi accettò e condivise tutto questo, c’è chi lo subì passivamente o con rassegnazione. E c’è invece chi non volle piegare la testa, chi non si piegò e seppe dire “No”. E combattè, mettendo in gioco tutto, la famiglia, la vita, come i nostri compagni della 22a brigata Garibaldi. E tanti altri.
Sarà bene ricordarsi il grande monumento alla dignità umana che i partigiani hanno eretto a futura memoria.
Eppure, incredibilmente, dobbiamo ancora ascoltare le parole ripugnanti di chi viene a raccontare che, tutto sommato, il duce del fascismo, Benito Mussolini, accanto a cose cattive, ha fatto anche “cose buone”; strade, ponti, bonifiche. Mancava che aggiungesse che i treni arrivavano in orario, secondo gli stilemi della più becera propaganda nostalgica.
Ebbene, a costoro, ai fascisti dichiarati e a quelli dissimulati che siedono in parlamento e che si candidano a governare l’Italia rispondiamo con le parole sferzanti di un altro e ben diverso presidente, il presidente partigiano Sandro Pertini: “Il fascismo non è un’idea, è un crimine!”.
Ma cosa fu la la Resistenza? Fu, appunto, secondo la definizione che ne diede Claudio Pavone, guerra patriottica, per cacciare l’invasore; fu guerra civile, per liberarsi dalla dittatura fascista, e fu guerra di classe, per riscattarsi dal dominio dispotico di una borghesia che dopo il biennio rosso del ’19 e ’20 aveva trovato nel fascismo lo strumento di una propria totale rivincita sul lavoro.
Protagonisti della Resistenza furono strati di tutte le età, uomini e donne, ma in particolare i diciottenni, i ventenni che non esitarono a schierarsi e a giocarsi la vita per il riscatto del paese.
Ne dovrebbe parlare la scuola, ma salvo l’impegno serio di qualche insegnante, non lo fa. O lo fa tiepidamente, distrattamente o superficialmente, per cui la memoria si perde, insieme alla consapevolezza del significato profondo di quella pagina, e qualche volta le stesse celebrazioni del 25 aprile si riducono a vuoti riti che non sanno parlare ai giovani, e affogano nella retorica.
Invece l’importanza della memoria, incardinata in una rigorosa ricostruzione storica, è grande: significa guardare criticamente al passato da cui veniamo per muoversi nel presente, per scansare gli errori del passato altrimenti destinati fatalmente a ripetersi.
E per progettare il futuro, un futuro nel quale non vi sia più spazio per l’oppressione e dove lo sviluppo di ciascuno sia davvero la condizione dello sviluppo di tutti.
C’è chi va raccontando che una volta sconfitto il fascismo bisognerebbe mandare in soffitta anche l’antifascismo.
Errore fatale: il fascismo non si presenta sempre sotto le antiche sembianze, camicia nera, fez, orbace e olio di ricino, come lo abbiamo tristemente conosciuto nel ventennio della sua dittatura.
Vi è fascismo dove, anche in forme inedite, incontriamo la persecuzione delle opposizioni, l’annullamento della libertà, la discriminazione razziale, la soppressione della democrazia, l’occupazione totalitaria del potere, le pulsioni guerrafondaie.
Bisogna saperlo riconoscere e combattere, il fascismo, in tutte le sue mutevoli forme.
E bisogna reprimerlo, come la Costituzione italiana impone, quando riemerge nelle sue manifestazioni più classiche, come nelle formazioni di Forza nuova e Casa Pound che non nascondono per nulla i propri ascendenti nazi-fascisti e si distinguono per ricorrenti azioni squadristiche, che possono impunemente presentarsi alle elezioni con i loro simboli senza che gli organi dello Stato intervengano.
E allora si impone una domanda: c’è la Costituzione e ci sono due leggi della Repubblica: la Scelba e la Mancino che consentirebbero di mettere immediatamente fuori legge le formazioni neo-fasciste e neo-naziste. Ma il governo non batte ciglio, neppure quando costoro tornano ad assaltare le sedi sindacali, come è accaduto alla sede nazionale della Cgil.
E allora ecco la domanda inquietante: perche?
L’antifascismo attivo, se questa formula ha ancora un senso, deve costituire un argine invalicabile contro ogni tentativo di sopraffazione e di degenerazione autoritaria.
Ebbene, l’eredità più preziosa della Resistenza è la Costituzione italiana, frutto di quella lotta drammatica e straordinaria nella quale si gettarono le premesse per una radicale trasformazione del paese, non solo per cancellare l’onta del fascismo, ma per andare ben oltre il vecchio, preesistente stato liberale che del fascismo si era fatto complice.
Guardatela, leggetela questa nostra Costituzione, guardate quanto è straordinariamente attuale a 70 anni dalla sua promulgazione, malgrado i maltrattamenti subiti e la sistematica disapplicazione di cui è stata fatta oggetto.
E guardate quanto sia semplice da capire, per chiunque, in un mondo in cui la politica-politicante è spesso ridotta ad una insopportabile e volgare cicaleccio.
Una cosa va prima di tutto compresa: la nostra Costituzione non è soltanto una somma di importantissimi principi che devono plasmare le relazioni sociali, non è soltanto un sistema di regole in base alle quali organizzare la nostra convivenza civile.
La Costituzione è un vero e proprio progetto di società, che attraverso il progressivo sviluppo della democrazia può portarci alla piena realizzazione di un mondo di liberi ed eguali, dove la libertà è la condizione dell’uguaglianza e, reciprocamente, l’uguaglianza è la condizione senza la quale la libertà è solo fittizia, finta, o per pochi.
Un progetto di società che ha al suo centro un’idea di fondo: che i cittadini, i produttori associati, riuniti in libere e democratiche istituzioni possano finalmente divenire protagonisti del loro destino e non essere soggiogati da forze loro estranee.
Ecco perché sin dall’articolo 1 si trova scritto che L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e che la sovranità appartiene al popolo, e che nessun potere si può erigere sopra la legge.
Questo ci hanno consegnato i partigiani e i padri costituenti. Questo voleva dire Piero Calamandrei quando, nel 1955, concludeva il suo straordinario discorso sulla Costituzione rivolgendosi ai giovani per dire loro: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione”.
Ebbene, nella nostra Costituzione c’è un articolo che è il più importante di tutti.
In esso sta scritto che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Dunque lì c’è scritto che è compito della Repubblica garantire il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini e le donne dignità di esseri umani. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’articolo primo – “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro“- corrisponderà alla realtà.
Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo e ogni donna di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da essere umano, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini siano veramente messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso di tutta la società.
Quando 8 milioni di persone vivono nell’indigenza e oltre 4 milioni non sono in grado di disporre di un pasto proteico almeno ogni 3 giorni, non possono riscaldarsi, non possono pagare l’affitto o una bolletta; quando un giovane su tre non trova lavoro; quando la precarietà dilaga, tornano forme di lavoro schiavile e per tanta gente il futuro si presenta come un salto nel buio; quando questa è la realtà che ci si para dinnanzi, vuol dire che qualcosa di profondo non funziona.
Eppure, nella Costituzione sta scritto che la Repubblica garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale;
- nella Costituzione sta scritto che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto;
- nella Costituzione sta scritto che lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo nel territorio della repubblica;
- nella Costituzione sta scritto che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali;
- nella Costituzione sta scritto che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.
E sempre nella Costituzione c’è un intero capitolo dedicato ai rapporti economico-sociali in cui è detto chiaro e tondo che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa; e che a parità di lavoro deve corrispondere parità di retribuzione.
E ancora: che ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.
E poi, cosa di eccezionale importanza, nella Costituzione sta scritto che l’iniziativa economica privata è sì libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
Ma sono 1200 gli omicidi sul lavoro che abbiamo contato lo scorso anno.
La Costituzione afferma che il sistema tributario è informato a criteri di progressività e cioè che chi più ha più deve pagare affinché lo Stato possa assolvere alla funzione di redistribuzione della ricchezza attraverso il sistema dei servizi sociali.
Infine, e non certo da ultimo, la Costituzione afferma, perentoriamente, che è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.
Questo è il testamento che ci hanno lasciato centomila uomini e donne che hanno vissuto, combattuto e perso la vita per consegnarci questo progetto di società e di vita comunitaria.
E allora voi capite da tutto questo che la nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere.
E che contro questo progetto, che non è mai stato loro, si battono le classi dominanti.
Quanto lavoro abbiamo da compiere! Quanto lavoro abbiamo davanti a noi!
La nostra è non è una Costituzione che guarda al passato, ma che apre le vie verso l’avvenire. Se permetteremo che la tenaglia si stringa su di essa potremmo incontrare nuovi tempi bui.
La Costituzione – diceva ancora Piero Calamandrei – è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere le promesse in essa contenute. E per farlo serve, anzi è indispensabile, la responsabilità di ciascuno.
Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza non solo per la politica, ma per tutto ciò che ci succede intorno.
Lo so, si può obiettare: quella di un tempo era “grande politica”, mentre oggi in parte non trascurabile la politica è divenuta per molti uno strumento di arricchimento personale, al servizio proprio o di inconfessabili interessi.
Ma questo non giustifica affatto la fuga dall’impegno disinteressato, l’atteggiamento di chi dice “che me ne importa, io penso ai fatti miei”.
Sentite quanta carica morale viene da questa invettiva con cui Antonio Gramsci, nel lontano 1917, dalle colonne de La città futura si scaglia contro l’indifferenza:
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza.
Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.
Ecco, il punto è proprio questo.
Il Paese, il suo futuro, l’avvenire nostro e delle prossime generazioni non è affare d’altri.
E allora, fondamentale è la partecipazione popolare alla vita pubblica, attraverso i partiti, i movimenti, le associazioni. Insomma, quelli che chiamiamo i corpi sociali intermedi e la cittadinanza attiva, linfa vitale della democrazia, in assenza della quale o nella latitanza della quale la politica diventa povera cosa, affidata a caste autoreferenziali che la gestiscono in proprio.
La XVIII delle disposizioni transitorie e finali della Costituzione afferma una cosa importantissima e cioè che “la Costituzione dovrà essere fedelmente osservata come Legge fondamentale della Repubblica da tutti i cittadini e dagli organi dello Stato”.
Attenzione: perché osservata vuole dire fatta applicare: ed ognuno di noi deve essere depositario implacabile di questo compito!
Solo così saremo degni di ricordare i nostri morti caduti su questi monti e potremo legittimamente gridare, ora e sempre: Viva la Resistenza, Viva i partigiani, Viva la Costituzione.