Il ministro Franceschini ha colpito ancora. Il ministro “che tanto ha fatto per la cultura”, l’artefice della peggiore riforma dei beni culturali e del cinema, il ministro “che tanto ha fatto” per la mercificazione della produzione artistica e del patrimonio culturale, non ha smentito se stesso. Con il nuovo Dpcm ancora una volta hanno vinto i grandi interessi, ancora una volta ha vinto il mercato, ancora una volta pagano i lavoratori. E ancora una volta paga la cultura.
Il calcio può proseguire, i luoghi di lavoro continuano ad essere focolai di contagio, i lavoratori possono continuare ad ammassarsi sui treni dei pendolari e sui mezzi pubblici, ma si chiudono indiscriminatamente i luoghi della cultura. Unici luoghi di possibili relazioni sociali che sono riusciti a garantire la salute dei cittadini.
Ma per questo governo e per questo ministro la cultura non è strumento di crescita collettiva ma “tempo libero”; i beni culturali e la produzione artistica non sono strumenti di conoscenza, di formazione di consapevolezza critica individuale e collettiva, ma equivalgono alla “movida” e all’aperitivo delle sette.
Per questo governo e per questo ministro la cultura non è un diritto, come sancito dalla costituzione, i lavoratori dei beni e della produzione artistica e culturale non sono “lavoratori”. Di fronte alla drammatica emergenza Covid si sono sostenute le grandi imprese mentre i lavoratori non hanno ancora percepito nulla di quanto promesso.
Rifondazione comunista è a fianco degli artisti, degli autori, degli operatori culturali e di tutti i lavoratori della cultura che in questi giorni stanno protestando per la chiusura di teatri, sale di concerto, sale cinematografiche.
Contro ogni politica di “bonus” e di “una tantum”, Rifondazione comunista chiede che sia garantito un reddito di base per tutte e tutti coloro che non hanno reddito o con un reddito insufficiente per vivere. Chiede che sia garantito un sostegno strutturale a tutte le imprese indipendenti di produzione e fruizione culturale.
Rifondazione comunista chiede che si esca da questa drammatica crisi riconoscendo finalmente tutti i diritti dei lavoratori dei beni e della produzione culturale: rispetto del contratto nazionale, ammortizzatori sociali, malattie professionali, infortuni sul lavoro, maternità, diritto alla pensione. Che si metta fine alle false partite iva che costringono artisti e lavoratori della cultura ad essere imprenditori di se stessi. E perché sia riconosciuto il carattere “intermittente” del lavoro culturale: il lavoro apparentemente “sommerso” è in realtà lavoro a tutti gli effetti e come tale deve essere remunerato e tutelato.
Pubblicato su Il Manifesto
* responsabile nazionale cultura del Partito della Rifondazione comunista/Sinistra europea
Fino a qualche tempo fa i partiti si lavavano pubblicamente la coscienza con lo slogan “fuori i partiti dalla Rai”, anche se poi erano gli stessi che si spartivano le nomine. Ma perlomeno facevano un po’ finta e comunque sembravano consapevoli non dico del problema ma quantomeno del tema. Oggi neanche più questo. Né da parte dei partiti presenti in Parlamento né – bisogna dire – da parte della maggioranza degli organi di stampa. Quello che fa impressione negli articoli usciti in questi giorni e relativi alle proposte di nomina dei nuovi direttori di Rete e di struttura da parte dell’amministratore delegato della Rai, è che tutta l’attenzione sia dedicata al favore riservato a questo o quel candidato da parte di questo o quel partito e l’unica caratteristica rilevante individuata per ciascun “candidato” sia la sua appartenenza o “vicinanza” a questo o quel partito. E che proprio l’appartenenza o la vicinanza a questo o quel partito sarebbero la garanzia di un fantomatico pluralismo. Vicino ai nomi compare solo la sigla di un partito e pare non interessi a nessuno sapere chi è quella persona e quale progetto abbia per la struttura che dovrebbe dirigere (sempre che ce l’abbia).
Credo che nessuno in buona fede possa credere e sostenere che un pluralismo reale dipenda da chi va dove e dirige cosa. La lottizzazione e più in generale il controllo di tutta la comunicazione e della produzione culturale hanno possibilità di esistere e di rafforzarsi man mano che si accentrano i poteri in poche mani, che si eliminano tutte le “regole” in grado di garantire autonomia culturale e libertà creativa, man mano che si preclude qualsiasi possibilità di partecipazione alla gestione e di verifica democratica da parte delle forze sociali, culturali e professionali.
Ma ormai anche, o forse soprattutto, nei settori della produzione culturale e artistica e dell’informazione la “barbarie culturale” di oggi non conosce limiti né tantomeno pudore. E allora forse è utile ricordare alcune tappe della formazione di questa “barbarie”. Il primo segnale viene con quella che fu chiamata la “Rai dei professori”, con la nomina di Demattè (docente di strategia aziendale) a presidente della Rai che pensò bene, per ridurre le aree considerate “non produttive”, di chiudere moltissime strutture provocando per protesta le dimissioni di Sandro Curzi da direttore del Tg3 e di Angelo Guglielmi da direttore della Terza rete. Era l’inizio della fine di un servizio pubblico radiotelevisivo affidato alla gestione di personalità della cultura e della produzione artistica e del passaggio definitivo alle gestioni “imprenditoriali”.
La formalizzazione di questo passaggio è tutta di Bassanini che pensa bene di eliminare il ministero delle Comunicazioni per accorparlo con quello delle Attività produttive poi diventato dello Sviluppo economico. Ci penserà il governo Prodi ad inserire nella finanziaria l’accettazione della riforma Bassanini e il governo Berlusconi IV a metterla in atto. Riforma che ha di fondo l’idea che la più grande azienda culturale italiana – oltretutto pubblica – cioè la più grande azienda produttrice di senso debba rispondere ai criteri che regolano qualunque attività produttiva e quindi vada trasformata in modo tale che il suo fine ultimo sia il successo sul mercato e lo sviluppo economico e non la crescita culturale e dunque sociale del paese. E questo ragionamento vale anche per le aziende private che producono cultura e informazione. Un tempo si diceva – e si scriveva nelle direttive europee – che anche le televisioni private devono rispondere ai criteri del “servizio pubblico” proprio perché produttrici di “senso”. Non è più vero. Siamo evidentemente arrivati al totale rovesciamento di quella idea e a ritenere quindi che, come i privati, anche l’azienda pubblica debba rispondere e sottostare alle regole e ai meccanismi del mercato e lavorare per il raggiungimento dell’utile economico. Questo è lo snodo di fondo da cui deriva tutto il resto.
Direi che da qui la discesa è veloce e si arriva con facilità e senza contraccolpi od ostacoli al 2015 e alla riforma di Renzi – cioè del Pd – che riporta la Rai a prima del 1975 e cioè sotto il diretto controllo del governo, guidata da un amministratore unico che accentra su di sé tutti i poteri. Un uomo solo al comando, come soluzione di tutti i problemi che la democrazia comporta: al governo, come nella scuola, come nel servizio pubblico radiotelevisivo. Non è un fatto formale ma sostanziale l’idea che una azienda culturale pubblica sia gestita non più da un direttore generale che risponde a un consiglio di amministrazione ma da un amministratore unico – nominato di fatto dal governo – investito di pieni poteri: sul piano industriale, sul bilancio preventivo, sulle stesse ristrutturazioni industriali, sulle nomine, sulle stipulazioni dei contratti aziendali fino a dieci milioni.
E allora se si vuole davvero difendere la libertà d’espressione e il pluralismo culturale e informativo, è da dove è iniziata la “barbarie” che bisogna ripartire, rimettendo in discussione tutto l’attuale sistema legislativo e ricominciare a riflettere e lavorare all’elaborazione di una nuova legge per tutto il comparto delle comunicazioni. E ragionare insieme a tutte le forze culturali, professionali e sociali del settore per una riforma radicale del servizio pubblico radiotelevisivo che riguardi il modello editoriale ed organizzativo, la struttura aziendale e produttiva, l’assetto istituzionale. Partendo dalla consapevolezza del ruolo fondamentale che non solo l’informazione, ma tutta la programmazione radiotelevisiva hanno sulla formazione dei modelli culturali e dei sistemi di valori, sulla conoscenza e consapevolezza della realtà, sulla possibilità o meno di conservare e trasmettere la memoria storica per capire quello che siamo oggi e decidere cosa vogliamo essere domani. Per capire in che mondo viviamo e se vogliamo cambiarlo e come. Per la formazione di un pensiero unico appiattito sulla realtà oppure di una coscienza critica. Se il senso comune diffuso oggi nel paese è quello che tragicamente è, lo si deve in parte – non certo meccanicisticamente – anche ai modelli diffusi dagli apparati culturali, formativi ed informativi.
Lavorare ad una riforma che riporti il servizio pubblico sotto il controllo del Parlamento e che abbia alla base regole che rendano trasparenti, pubblici e partecipati i criteri di nomina del consiglio di amministrazione e dei dirigenti. Per esempio stabilendo che siano i lavoratori della Rai, quelli dell’informazione, le forze sociali, culturali e professionali di tutta la produzione culturale (dall’editoria al cinema, dall’audiovisivo al teatro e alla musica, e così via) a proporre per il consiglio di amministrazione delle rose di nomi sulle quali il Parlamento deve decidere. E che le rose dei nomi siano strettamente legate e condizionate a proposte e progetti sul ruolo strategico della azienda pubblica.
Una riforma che ridia pieni poteri e autonomia a un consiglio di amministrazione che sia espressione di tutti i settori della produzione culturale ed artistica.
Che riporti la Rai nelle condizioni di assumere il ruolo le compete, e cioè quello di “volano dell’industria culturale del paese”. Che vuol dire non solo garantire libertà espressiva e creativa, ma promuovere, sostenere, fare emergere, dare voce e volto alle tante potenzialità e alle tante soggettività e realtà culturali e produttive diffuse su tutto il nostro territorio nazionale. Questa è la base per un vero pluralismo culturale. Una riforma che metta il servizio pubblico radiotelevisivo nelle condizioni di garantire non una informazione “oggettiva” che non esiste, ma un’informazione che rispecchi e rappresenti la vita reale insieme a tutti i “soggetti” presenti e protagonisti nella società: pluralismo dell’informazione vuol dire dare conto dei tanti diversi punti di vista che quei soggetti esprimono. Una riforma che ridia alla Rai la legittimità democratica di “servizio pubblico” garantendole autonomia e trasparenza, trasformandola in una azienda decentrata e partecipata, pluralistica nella sua offerta informativa e culturale complessiva nel rispetto dei tanti “pubblici”, sganciata dalle logiche di ascolto e di mercato, strettamente finalizzata all’utile culturale e dunque sociale.
Se le “battaglie” si limitano alle guerre per i nomi e per gli “spazi”, si farà ancora una volta finta di voler cambiare tutto per non cambiare poi in realtà niente.
* responsabile nazionale cultura del Partito della Rifondazione comunista/Sinistra europea
“Gli Agnelli si riprendono La Stampa e comprano Repubblica”. Questo il titolo e il senso – in realtà “riduttivo” – di quasi tutti gli articoli usciti in questi giorni per dare la notizia dell’acquisto da parte della finanziaria Exor (famiglia Agnelli) del gruppo editoriale Gedi, la società che possiede l’Espresso e Repubblica, La Stampa e Il Secolo XIX, ma anche 13 quotidiani locali (dal Piccolo di Trieste al Tirreno, dal Messaggero veneto alla Nuova Venezia, dalla Gazzetta di Reggio a Il Piccolo, tanto per capirci), una serie di periodici tra cui MicroMega, National Geographic e Limes, una rete di radio tra cui Dee Jai e Radio Capital, una divisione “Digitale” (Tvzap, Dee Jai tv, Maymovies) e infine – tanto per gradire – la concessionaria di pubblicità A. Manzoni e &.
È ovvio che l’attenzione si concentri sul dato più eclatante – l’acquisto di Repubblica e de l’Espresso – che già da solo dovrebbe far preoccupare tutti sullo stato del pluralismo dell’informazione nel nostro paese. Ma se a questo si aggiunge un controllo capillare di fatto del territorio attraverso i giornali locali, le radio e le televisioni e il controllo “economico” attraverso la concessionaria di pubblicità, direi che l’allarme diventa davvero serio.
Serio sul piano dell’occupazione: già a novembre il gruppo Gedi aveva dichiarato per il Secolo XIX un esubero di 37 lavoratori poligrafici su 38 e a livello nazionale l’esubero di 121 poligrafici. E il piano di ristrutturazione degli Agnelli dopo l’acquisizione della Gedi non prevederà certo un incremento di lavoratori poligrafici né di giornalisti.
E serio ancor più sul piano della democrazia reale, sul quel diritto alla libertà di informazione e ad essere informati previsto dalla Costituzione.
Credo però che insieme alle preoccupazioni e agli allarmi occorra interrogarsi sul come si sia potuti arrivare a rendere possibile una tale situazione, su quanto si siano a volte sottovalutate leggi di settore o più spesso la mancanza di leggi che regolino la produzione di cultura e di informazione, sul perché in tutti questi anni ci sia stato un sostanziale silenzio da parte di tutte quelle forze professionali sociali e culturali che avrebbero dovuto quantomeno “vigilare” sul sistema delle comunicazioni e della produzione culturale.
E ancora di più credo sia urgente cominciare a ragionare insieme (forze politiche, sociali, culturali e professionali) sul ruolo centrale dello Stato in questi settori e sull’elaborazione di nuove leggi di sistema non solo all’altezza delle nuove sfide tecnologiche, come si usa spesso dire, ma in grado di garantire realmente a tutti le possibilità concrete di accedere alla produzione e alla fruizione dell’informazione, della comunicazione e della produzione culturale. Perché questo è quello che garantisce la Costituzione; perché questo è quello per cui penso si debba battere qualunque forza realmente di sinistra; perché anche questo è un terreno della lotta di classe.
Pochissimi dati, solo per capire di cosa stiamo parlando, intanto per quanto riguarda l’informazione stampata (piccola ma determinante parte dell’informazione complessiva). Un dato generale, che riguarda l’editoria libraria (fonte Aie) ma che ci fa comprendere qualcosa anche per quanto riguarda la lettura dei giornali e ci dimostra come conoscenza, informazione, formazione e cultura siano elementi inscindibili: tra i 5 maggiori mercati editoriali europei, l’Italia è il paese con il più basso indice di lettura di libri tra la popolazione adulta. Tra i giovani solo l’1 % dedica alla lettura un’ora continuativa al giorno. Il nostro paese è all’ultimo posto per il livello di comprensione dei testi.
Secondo i dati Ads (Accertamento diffusione stampa) relativi al mese di settembre 2019 solo il Corriere della sera e Repubblica vendono nelle edicole intorno alle 200.000 copie, tutti gli altri quotidiani sono ampiamente sotto questa soglia: la Stampa 112.000, il Messaggero 78.000, il Fatto 30.000, il Manifesto circa 8.000.
Le edicole continuano a chiudere inesorabilmente: circa 4.000 in dieci anni. In Toscana hanno chiuso 377 edicole, nel Veneto 321, solo Milano ne ha perse 284. In Sicilia c’è un’edicola ogni 6.476 abitanti, una ogni 5.172 abitanti in Puglia.
Allora provo ad indicare solo alcuni dei temi sui quali iniziare a riflettere e che a mio parere costituiscono dei punti cardine per qualsiasi reale riforma del settore dell’informazione e della comunicazione.
Una vera normativa antitrust, verticale e orizzontale, che impedisca da un lato la formazione di posizioni dominanti (e non solo l’abuso di esse, come prevedono le attuali leggi) e dall’altro la concentrazione nelle stesse mani della produzione e/o distribuzione di diversi “mezzi di comunicazione”: chi edita quotidiani e periodici non può possedere emittenti televisive o radiofoniche né concessionarie di pubblicità; le imprese di produzione e distribuzione cinematografica non possono editare quotidiani o periodici né possedere emittenti televisive, e così per i diversi settori dell’industria culturale.
Leggi di sistema che mettano di nuovo al centro il ruolo sociale dello Stato e quindi l’intervento pubblico a sostegno dell’editoria indipendente, di quella cooperativa, di quella di partito, di quella culturale. La libertà, l’indipendenza e il pluralismo dell’informazione e della comunicazione si garantiscono con regole trasparenti e finanziamenti certi per tutte quelle attività che con le sole regole e i soli meccanismi di mercato non potrebbero neanche vedere la luce e che comunque una volta nate non riuscirebbero a vivere.
E la libertà, l’indipendenza e il pluralismo dell’informazione e della comunicazione si difendono se si garantisce da un lato con il sostegno pubblico la sopravvivenza e la vita dei cosiddetti “punti vendita”, cioè le edicole, e dall’altro la possibilità di accesso di tutti all’informazione: una delle principali cause della diminuzione drastica di vendita di quotidiani è la crisi economica e quindi la difficoltà – spesso l’impossibilità – per i lavoratori di acquistare anche un solo giornale. Il sostegno pubblico deve servire anche a garantire una politica dei prezzi per i quotidiani e i periodici.
E ancora, la libertà, l’indipendenza e il pluralismo dell’informazione e della comunicazione si difendono garantendo il lavoro e i lavoratori: quale libertà può avere un giornalista pagato 7 euro a “pezzo”? spesso senza contratto? Quale libertà può permettersi un giornalista che deve affrontare da solo, con i propri mezzi, denunce intimidatorie?
Ma non si garantisce la libertà di “in-formare” e di essere “in-formati” se non si capisce fino in fondo il nesso stretto tra informazione, formazione, comunicazione e cultura, se si affronta un solo settore dell’industria culturale e non tutto il sistema.
Se non si porta l’intervento pubblico complessivo nella cultura perlomeno all’1 percento del Pil. Se non si restituisce la Rai al suo ruolo di servizio realmente pubblico, riportandola sotto il controllo del Parlamento e sottraendola a quello del governo; se non si lavora per far sì che la Rai torni ad essere volano di tutta l’industria culturale del nostro paese, un’azienda democratica, decentrata e partecipata che possa ridare vita a tutta la produzione indipendente diffusa su tutto il territorio nazionale, pluralistica nella sua offerta culturale complessiva, nel rispetto dei tanti “pubblici”, sganciata dalle logiche di mercato superando l’aberrante distinzione tra programmi “di servizio” e programmi commerciali.
Se non si riformano tutti i settori della produzione culturale ed artistica tornando a finanziare con l’intervento pubblico le opere e non il mercato e le imprese, sostenendo la produzione indipendente. Se non si difendono tutti i luoghi della cultura.
Se non si riconoscono i diritti dei lavoratori di tutti i settori dei beni e della produzione culturale e artistica.
Pubblicato su Transform
* responsabile nazionale cultura del Partito della Rifondazione comunista/Sinistra europea
La fotografia dell’Italia che emerge dal 53° Rapporto sulla situazione sociale del Paese del Censis conferma in realtà l’analisi politica, sociale e culturale che da anni andiamo facendo, anche se ovviamente con altri “occhi” e con letture diverse.
Secondo il Censis gli italiani stanno sfuggendo dal mulinello della crisi ma l’insicurezza è diffusissima (il 63 % guarda al futuro con incertezza e il 17 % è pessimista) e genera ansia e stress esistenziale (lo dichiara il 74 % degli italiani; il consumo di sedativi e ansiolitici è aumentato del 20 % in tre anni). Causa di tutto ciò – sempre secondo il Rapporto – lo stravolgimento sociale epocale degli ultimi anni: diminuzione della protezione sociale garantita dal welfare, rottura del cosiddetto ascensore sociale e rischio di declassamento sociale. Sono crollati anche due pilastri della sicurezza familiare: la proprietà della casa – che prima era un investimento per il futuro ed adesso un peso e un pericolo – e i Bot che ormai non rendono quasi più nulla per cui il risparmio si è trasferito “sui contanti”. Risultato di questo stravolgimento è l’autotutela individuale per la sopravvivenza: si deve contare solo sulle proprie forze per porre una diga, un “muretto” al rischio di franare verso il basso.
La stessa analisi del Censis dice che con la caduta del Muro di Berlino si era dichiarata la “fine della storia” nel senso che “finalmente” erano finiti i regimi socialisti e restavano in piedi solo le democrazie liberali e il capitalismo, ma che adesso forse la “storia si rimette in moto”.
Chi pensava cioè che la fine delle ideologie e la vittoria di una sola ideologia, quella della globalizzazione neoliberista, quella del mercato e della mercificazione globale risolvesse i problemi e le contraddizioni della società di classe, si trova di fronte al fatto che la storia appunto ricomincia. Con una nuova guerra fredda, con i nuovi sovranismi e la costruzione di frontiere invalicabili. Con le lotte, le rivolte e le “ribellioni” in tutto il mondo.
Quella del Censis è una radiografia piena di elementi apparentemente – e solo apparentemente a mio avviso – contraddittori e che fotografa una società parcellizzata e senza speranze (l’unico elemento “in avanti” sono i giovani di Fridays for future), risultato delle politiche scellerate degli ultimi venti anni non solo sul piano sociale ed economico ma anche su quello della formazione, dei saperi e della cultura. Politiche che hanno tragicamente generato un impoverimento complessivo dei livelli di coscienza e di consapevolezza di sé e dei propri diritti, di strumenti di conoscenza della realtà e della possibilità di modificarla. Politiche che hanno generato la diffusione di un sistema di valori fondato sul ribaltamento delle priorità individuali e collettive.
Ma i dati che emergono dal Rapporto Censis credo ci debbano far riflettere per capire meglio anche come e su quale terreno – sociale e culturale – portare avanti le nostre battaglie e le nostre idee, il nostro progetto di società, ma anche la nostra comunicazione politica.
Abbiamo sempre detto che la “crisi” di tutto l’apparato di rappresentanza degli interessi collettivi, insieme alla crisi economica, ha portato ad una società di individui “singoli e soli”, che in mancanza di protezione sociale e di rappresentanza politica il nemico viene individuato in chi è come te, in chi ti sta a fianco e rischia di toglierti il lavoro, che si deve combattere solo per se stessi e non più per i diritti collettivi. Con il rischio concreto della diffusione di un senso comune pervaso da pulsioni antidemocratiche. E i dati del Censis ci dicono proprio che il 75,5 % degli italiani ritiene che non si è mai abbastanza prudenti nei rapporti con gli altri (73,4 % tra gli operai, 78,6 % tra i disoccupati). Che il 76 % della popolazione (81 % degli operai e lavoratori esecutivi, 89% dei disoccupati) non ha fiducia nel sistema politico e che il 48,2 % è favorevole ad un’ “uomo forte” che non debba “preoccuparsi” del Parlamento (67 % tra gli operai e i lavoratori esecutivi). E in apparente contraddizione il 42 % degli italiani indica le notizie di politica nazionale come quelle che lo interessano di più (anche più dello sport), ma il 90,3 percento vorrebbe vedere di meno nei programmi televisivi i politici, l’87 % i sindacalisti, l’81 % i religiosi, mentre il 73 % vorrebbe invece vedere di più scienziati, medici ed esperti. Bisogno di politica, di un’altra politica e di una informazione documentata che dia gli strumenti per capire cosa sta accadendo.
Allora quali sono oggi gli strumenti di comunicazione politica e i mezzi di informazione?
Come è sotto gli occhi di tutti la carta stampata è sempre più in difficoltà, con un calo di numero di copie vendute del 7,5 %. Più colpiti i quotidiani economici (- 17%) rispetto ai quotidiani nazionali (-6,8%). Per quanto riguarda i quotidiani on line il trend è positivo: i giornali che nel periodo settembre 2018-luglio 2019 hanno registrato il maggior numero di utenti nel giorno medio sono Repubblica con un picco a ottobre 2018 di 3 milioni di utenti e Il Corriere con 2 milioni e mezzo nello stesso periodo. Il Messaggero ha circa 2 milioni di utenti, la Stampa circa 1 milione.
La radio mantiene ancora dei livelli alti di ascolto e i social network sono i maggiori mezzi di comunicazione personale e di disintermediazione: in testa ma stabile Facebook, Instagram in grande ascesa, Twitter “elitario e ondivago”. Ma i telegiornali restano ancora la fonte principale di informazione per il 65 % degli italiani, segue Facebook per il 25 %, la radio per il 20 %, i quotidiani per il 14,8 % .
Il dato più rilevante nell’analisi dei mezzi di comunicazione individuale è la diffusione dello smartphone perché è lo strumento che ha consentito il superamento del digital divide, essendosi abbassata la soglia delle competenze necessarie all’uso degli strumenti digitali, ed è diventato “l’icona della disintermediazione”. La percentuale dei fruitori di cellulari smart è passata dal 15% del 2009 all’attuale 73,8% e il numero dei possessori di smartphone coincide con quanti hanno accesso a internet. L’acquisto di un cellulare smart è diventato per le famiglie anche un investimento economico (la spesa per la telefonia è aumentata del 290 % in dieci anni) perché consente non solo un risparmio di tempo ma anche l’accesso rapido a beni e servizi on line.
Ma la diffusione di queste tecnologie personali ha comportato una specie di “mutazione antropologica”: tra i fattori ritenuti centrali nell’immaginario collettivo della società di oggi il 38,5% mette in testa il posto di lavoro, al secondo posto i social network (28,3%), al terzo la casa di proprietà (26,2%), al quarto lo smartphone (25,7%), al sesto posto il selfie (18,9%), all’ottavo il titolo di studio (14,9%).
Credo che sia proprio questa “mutazione antropologica”, come la definisce il Censis, questo spaesamento sul futuro e all’opposto il fortissimo attaccamento neanche all’oggi ma “al momento” intrappolato nel selfie (quasi il 22% per le persone tra i 14 e i 44 anni), insieme al bisogno di una comunicazione senza intermediazioni e tutta esclusivamente “virtuale” che ci dice che il lavoro da fare è davvero enorme.
* responsabile nazionale cultura del Partito della Rifondazione comunista/Sinistra europea
Lettera sul governo. Con il ritorno dell’artefice della peggiore riforma dei beni culturali e del cinema che si ricordi è evidente che manca il coraggio di cambiare
Non c’è proprio nessuna «svolta», non c’è davvero nessun segnale di «coraggio e ambizione» nel ritorno al ministero per i Beni e le attività culturali di Franceschini, l’artefice della peggiore riforma dei beni culturali e del cinema che si ricordi, colui che ha decretato ufficialmente la mercificazione della produzione artistica e del patrimonio culturale.
Ed infatti la prima mossa del ministro renziano a dissipare ogni dubbio sulle sue intenzioni programmatiche è stata quella di riaccorpare il turismo al Mibac, cioè la cultura al mercato.
Per segnare davvero una svolta nelle politiche per i beni e la produzione culturale, occorre invece e per iniziare portare l’Italia a livello di tutti gli altri paesi europei negli investimenti per la cultura.
Occorre avere il coraggio di cancellare la legge sul cinema che porta il nome di Franceschini per tornare a sostenere le opere e gli autori e non le imprese; per ribaltare i criteri di finanziamento pubblico portando all’85 percento quelli «selettivi» cioè ai film d’autore, all’associazionismo culturale, alla formazione, ai festival, all’editoria cinematografica, eccetera e solo il resto ai cosiddetti «automatici», cioè al mercato.
Una legge che faccia i conti con le nuove tecnologie ma che metta al centro le sale cinematografiche e le opere per le sale.
Ancora: occorre aprire un confronto con il mondo del teatro e della musica per elaborare finalmente una legge quadro di riforma dello spettacolo dal vivo degna di questo nome.
Occorre far tornare istituzioni realmente pubbliche le fondazioni lirico-sinfoniche eliminando la mostruosità del pareggio di bilancio.
Occorre una legge che riconosca finalmente la dignità e i diritti dei lavoratori della produzione artistica e dei beni culturali.
Occorre proteggere, promuovere e rendere accessibili a tutti i luoghi della cultura e i luoghi della partecipazione: i musei, le biblioteche, i teatri, le sale cinematografiche, le librerie, le sale per i concerti, i luoghi di sperimentazione.
Occorre promuovere e sostenere l’associazionismo culturale e il lavoro sui territori, la formazione professionale e quella culturale.
E ancora: cancellare la riforma Franceschini e la sua mercificazione del patrimonio culturale, separando i beni culturali dal turismo e promuovendo in modo serio la loro tutela e valorizzazione. In pochissime parole: per segnare davvero una svolta occorre riportare al centro il ruolo dello Stato anche nella cultura, nella consapevolezza che l’unico utile da ricercare è l’utile sociale; occorre che la cultura, la sua produzione e la sua fruizione, diventi realmente un diritto di tutti, come sancito dalla Costituzione. Che la si consideri un valore in sé, uno degli strumenti più importanti per la crescita individuale e collettiva, per la formazione di una coscienza critica. Cioè per la democrazia.
Pubblicato su Il Manifesto
* responsabile nazionale cultura del Partito della Rifondazione comunista/Sinistra europea
Quando si parla della caduta del muro di Berlino si parla di fine della guerra fredda, di fine del comunismo e di fine delle ideologie. Credo che si debba partire da qui, dalla cosiddetta “fine delle ideologie”, per capire cosa è successo nella cultura e nella produzione artistica dopo la “caduta del muro”. E io aggiungerei, per quello che riguarda l’Italia, dopo la “Bolognina”, cioè dopo l’inizio della fine del più grande partito comunista d’occidente.
È difficile non cadere nello schematismo e nelle semplificazioni, ma certamente “fine delle ideologie” vorrebbe dire fine di ogni concezione del mondo, fine di ogni orientamento ideale e culturale, fine di ogni complesso di valori e di ogni luogo di costituzione della soggettività collettiva. In realtà, come sappiamo bene, il grande e diffusissimo entusiasmo per la fine delle ideologie altro non è che grande e diffusissimo entusiasmo per la vittoria di una sola ideologia, quella della globalizzazione neoliberista, quella del mercato e della mercificazione globale.
E cardine della globalizzazione neoliberista è il prevalere esplicito e teorizzato dell’economia e della finanza sulla politica: le loro logiche e le loro ragioni come protagoniste uniche dell’intero processo. Allora, tutto ciò che ostacola questa logica va rimosso: assemblee rappresentative, organizzazioni politiche e sindacali, conflittualità sociale e movimenti non sono altro che ostacoli ad un’unica realtà mercantile ed economica. Così come vanno colpiti principi che vanno dalla libertà d’espressione alla libertà di scelta, dal pluralismo culturale alla partecipazione civile, dai diritti di miliardi di individui alla vita stessa della democrazia.
E se la sinistra – italiana ma anche europea – ha tardato e tarda a capire l’importanza strategica della cultura, della produzione cioè di quel bene immateriale che ha così enormi riflessi sulla formazione delle coscienze – ma anche sulla produzione di merci – , e che è dunque possibile strumento della lotta contro il genocidio del mercato, il neoliberismo, le disuguaglianze, le discriminazioni, gli Stati Uniti non hanno perso tempo. Come prima cosa hanno invaso i paesi dell’ex Unione sovietica con la distribuzione gratuita di film americani (arrivavano treni con vagoni pieni di pellicole), ben consapevoli di quanto i modelli proposti da quel cinema, i suoi valori, ritmi e stili estetici e di vita potessero influenzare le coscienze, favorire l’accettazione anche inconsapevole di valori sociali e concettuali, indurre consumi di beni materiali assai spesso carichi anch’essi di contenuti culturali.
E poi hanno condotto a livello europeo – liberi da lacci e lacciuoli – la battaglia per eliminare qualsiasi ostacolo alla penetrazione del cinema americano in Europa fino ad arrivare a circa l’ottanta percento dell’intero mercato europeo. Attraverso il Gatt (1993) e l’Accordo multilaterale per gli investimenti (1997) hanno tentato di inserire la cultura e la produzione culturale nel suo insieme all’interno degli accordi internazionali sul commercio: riducendo cioè la produzione di senso a merce e sottoponendola agli stessi trattamenti economici e alle stesse regole cui sono sottoposte tutte le “merci”. Cercando di impedire in questo modo a ciascun paese di portare avanti, sul proprio territorio, una politica per la cultura. Se cioè la “merce cultura” fosse stata sottoposta solo ed esclusivamente alle regole di un mercato liberato da qualsiasi regola sarebbero spariti i servizi pubblici radiotelevisivi, i sostegni all’editoria, i sostegni alle produzioni teatrali e musicali, alle istituzioni culturali pubbliche, alla produzione cinematografia e così avanti in tutti quei settori dove si produce “conoscenza”.
Se questo non è avvenuto – perlomeno non del tutto – è stato perché per poco più di un decennio hanno resistito in Italia e in Europa i movimenti culturali e sociali che con le loro battaglie sono riusciti ad ottenere vittorie importanti: sottrarre la cultura all’Organizzazione mondiale del commercio con la nascita della Convenzione dell’Unesco “per la Promozione e protezione della diversità delle espressioni culturali”; imporre a livello europeo (la direttiva Televisione senza frontiere) e nelle leggi italiane ostacoli importanti (quote di produzione e di investimenti) all’occupazione dei mercati europei delle opere nordamericane, consentendo così il pluralismo culturale e la difesa e la possibilità di creazione e diffusione delle tante culture europee; garantire l’esistenza dei servizi pubblici radiotelevisivi. Solo per citarne alcune. E a livello mondiale nel 2002 a Porto Alegre si svolgeva il primo Forum mondiale dell’audiovisivo con al centro proprio la difesa delle diversità culturali.
Ma la vittoria dell’ideologia del mercato e la sua fascinazione su gran parte delle sinistre europee, ma in particolare su quella italiana, l’accettazione dei valori imposti dalla globalizzazione neoliberista, l’idea del “governo dell’esistente”, la “fine delle ideologie”, hanno finito per uccidere in Europa e in Italia i riferimenti collettivi – sociali e politici – portatori di speranza di cambiamento. Così piano piano sono morte anche le associazioni e i movimenti culturali europei e anche italiani. Non sono finite certo le lotte: ma tutte parziali, parcellizzate, non collegate tra loro e senza una visione generale. Senza un’idea di cambiamento generale, senza un’idea di un’altra società possibile. Così sono finite le battaglie degli autori europei, così in Italia è passata l’idea del mercato come unico regolatore della vita materiale e della produzione di senso. Si è legata la conoscenza all’impresa e la cultura e la produzione artistica al mercato. Si è accettato che si dismettesse pezzo per pezzo il ruolo dello Stato nella cultura (e non solo, naturalmente). Un tempo si diceva “passivizzazione delle coscienze”.
Pubblicato su Transform
* responsabile nazionale cultura del Partito della Rifondazione comunista/Sinistra europea
La direttiva di riforma del copyright in discussione al Parlamento europeo è stata rinviata a settembre con una votazione che ha fatto registrare una quasi generale spaccatura di tutti gli schieramenti politici europei (e italiani).
Da un lato le pressioni fortissime delle lobby americane in difesa dei giganti del web (Google, Facebook, Youtube, eccetera), dall’altro gli editori e i produttori di contenuti. In questo clima e data la scadenza elettorale europea del 2019 è difficile che si riesca a trovare una soluzione adeguata per una normativa così complessa e che investe direttamente interessi enormi.
Ed è proprio in vista di questa scadenza politica così importante che penso sia necessario cominciare a riflettere e tentare di fare chiarezza su alcuni nodi di fondo che questa direttiva investe, lasciando stare per ora la discussione sulle soluzioni “tecniche”. Soluzioni che penso si possano trovare e condividere solo se si ha chiaro chi e cosa si sta difendendo.
Per prima cosa va chiarito che questa direttiva riguarda il copyright, non il diritto d’autore, come è stato erroneamente detto su quasi tutti i giornali italiani, e non solo per ignoranza della materia, a mio parere. Per chiarire: il primo, il copyright, riguarda il “proprietario” dell’opera (l’editore, il produttore, ecc.) mentre il secondo riguarda appunto “l’autore” dell’opera. Il primo esiste nei paesi anglosassoni, il secondo nel resto d’Europa.
Quello che è in gioco in realtà con questa direttiva sono da un lato gli interessi economici immensi delle multinazionali americane (il capitalismo digitale) i cui profitti derivano dalla pubblicità e dalla raccolta dati ottenuti tramite l’uso “gratuito” (nel senso di non pagato) di contenuti ideati e prodotti da altri, dall’altro la possibilità stessa di una informazione e di una produzione artistica e creativa libera e indipendente, insieme alla possibilità di esistenza e resistenza di una industria culturale diversificata. E questo ha creato una inedita convergenza di “interessi” tra i produttori di contenuti e gli autori che proprio in tema di diritto d’autore sono stati invece sempre su fronti opposti. Cerco di spiegare perché.
Dicevo che quella che è in gioco è la libertà di espressione, la possibilità materiale di produrre una informazione e una produzione artistica e creativa “indipendente”. Apparentemente siamo tutti d’accordo. Quando si tratta però di discutere delle politiche da mettere in atto iniziano le divergenze e le differenziazioni, spesso politicamente e culturalmente trasversali.
Questo può spiegare almeno in parte perché per esempio in Italia siano passate delle politiche per (direi contro) la cultura senza una reale opposizione, né politica né tantomeno culturale. Mi riferisco per esempio alla legge che ha portato la Rai sotto il diretto controllo del governo e al fatto che sia diventato senso comune anche a sinistra che il servizio pubblico radiotelevisivo, cioè la più grande industria culturale italiana, sia una azienda come tutte le altre e come tutte le altre debba sottostare alle leggi di mercato. Come se tra la produzione di pomodori e la produzione di senso non ci fosse alcuna differenza.
Mi riferisco al fatto che senza battaglie si è accettata la fine dei finanziamenti pubblici all’editoria indipendente e, nei fatti, alla produzione culturale e artistica. Si è accettata cioè l’idea vincente del mercato come regolatore di tutto, si è fatta passare nei fatti la mercificazione delle persone, dei diritti, della cultura e della conoscenza.
Allora, e per tornare alla direttiva: come può “esistere” o perlomeno “resistere” una società indipendente di produzione di contenuti (informazione, cinema, musica, letteratura, eccetera), che da un lato non riceve un sostegno pubblico che la liberi dalle logiche e dai meccanismi di mercato, e dall’altro vede annullati i possibili ricavi dalla vendita a causa della diffusione gratuita sulla rete delle opere che produce? Torniamo al mecenatismo, come qualcuno tempo fa propose o ci battiamo perché le multinazionali americane paghino i produttori per l’uso in rete di quei contenuti che tanti profitti rendono loro? Anche così si sostiene una industria culturale autonoma e diversificata, anche così si difende la libertà di espressione.
E la si difende anche proteggendo il diritto d’autore, quello morale e quello economico.
Proteggere il diritto morale vuol dire impedire che un’opera, una produzione artistica venga tagliata, snaturata, spezzettata e utilizzata senza il consenso dell’autore (come invece avviene negli Stati Uniti). Vuole dire cioè difendere non solo l’originalità e l’integrità di un’opera dell’ingegno, ma vuol dire – questo sì – difendere il diritto alla circolazione della conoscenza.
Difendere il compenso economico vuol dire riconoscere il lavoro creativo come lavoro e quindi il diritto a ricevere un “salario”, spesso l’unico che un autore percepisca. Uno scrittore, un poeta, un musicista nella maggior parte dei casi non ricevono alcun compenso per il lavoro che producono, anzi spesso anticipano alcuni costi di produzione e di distribuzione. L’unico “compenso” allora è quello che può venire dalle “vendite” sul famoso mercato, quando ci sono. Cioè dal diritto d’autore, che diventa quindi quello che può garantire la libertà d’espressione e l’indipendenza (economica e quindi creativa) di un autore. O vogliamo solo Checco Zalone e solo la produzione vincente sul mercato?
Quando si parla di diritto d’autore lo si contrappone – in particolare a sinistra – alla libertà della circolazione dei saperi. Libertà della circolazione dei saperi che è l’argomentazione sostenuta non solo dai cosiddetti “mediattivisti democratici” ma guarda caso dalle stesse multinazionali del web.
Chiedere che il “sapere e la conoscenza” che gli artisti e gli autori producono con le loro opere debba circolare “liberamente” e cioè gratuitamente è come se per tutelare il diritto alle studio si chiedesse ai docenti universitari (che spesso tanto si battono contro il diritto d’autore) di insegnare a titolo gratuito.
Dietro tutto questo c’è, spesso a sinistra, l’idea della rete come paradiso in terra, come luogo dove non agiscono logiche e interessi economici e di mercato, luogo da cui nessuno trae profitto, luogo della totale libertà. Luogo che quindi deve essere senza regole, libero da lacci e lacciuoli.
Dietro tutto questo c’è, purtroppo spesso anche a sinistra, l’idea che il lavoro artistico e creativo non sia in realtà un lavoro e che quindi a quei lavoratori non vadano riconosciuti né un compenso né i diritti di tutti gli altri.
E dietro tutto questo c’è, purtroppo spesso anche a sinistra, l’idea che in un periodo di grave crisi economica la cultura sia in realtà un lusso, un di più non necessario. Ma è proprio in un momento così difficile che va a mio parere con maggiore forza riaffermato che la cultura è un diritto: cultura come strumento di formazione di una coscienza critica, di conoscenza della realtà, di crescita individuale e collettiva, quindi elemento essenziale di “uguaglianza sociale”. Questo diritto può essere garantito solo dallo Stato, con investimenti finalizzati all’utile culturale e dunque sociale e con il riconoscimento dei diritti individuali e collettivi.
E ancora dietro tutto questo c’è spesso e purtroppo anche a sinistra l’idea che la sovrastruttura non abbia alcuna incidenza sulla struttura. Che come diceva il titolo di un vecchio articolo di Alberto Abruzzese su Rinascita, non c’è differenza tra La Montagna incantata di Thomas Mann e Grand Hotel (per i giovani Grand Hotel era un fotoromanzo). Con buona pace di Gram
Pubblicato su Transform Italia
* responsabile nazionale cultura del Partito della Rifondazione comunista/Sinistra europea
Come sappiamo il primato dell’economia e della finanza, elevata da gran vettore dei processi di globalizzazione in corso a filosofia fondamentale dello sviluppo, conduce a un futuro – ad un presente – d’ingiustizia e disuguaglianze che non hanno precedenti nella storia dell’umanità. La distruzione tendenziale della politica e la riduzione a lacci e lacciuoli dei parlamenti, dei sindacati e delle istanze democratiche in genere, disegnano un progetto dove masse immense d’individui vivranno – vivono oggi – in povertà e subalternità, mentre sempre più concentrata è l’elite dirigente della produzione e della distribuzione della ricchezza.
Luigi Pintor terminava uno dei suoi più famosi editoriali in cui descriveva il futuro del nostro pianeta con le seguenti parole: “…finché la terra tremerà di nuovo sotto i nostri ben calzati piedi”. Nel suo stile sintetico e allegorico diceva in quattordici parole che le disperazioni e le barbarie che di più in più e sempre più vivranno miliardi di individui non potranno che condurre a un’immensa rivolta sociale, e che questo avverrà anche se le sinistre non ne saranno protagoniste.
Io penso che la destra – politica, economica, sociale e culturale – l’idea di questo “rischio” l’abbia ben chiara. E che abbia perfettamente e fisiologicamente chiaro che è la cultura il luogo dove può svolgere la massima opera di “prevenzione”, di soffocazione. Conosciamo a memoria l’insofferenza di tanti e tanti intellettuali e di tante forze anche della e nella sinistra europea quando si ripropongono i termini reali di una battaglia che si svolge fra chi lotta per l’affermazione di una cultura critica e plurale e chi invece lavora tenacemente e molto seriamente alla costruzione di un senso comune fatto di passività e adeguamento all’esistente.
Non è un caso che nella Carta dei diritti votata a maggioranza dal Parlamento europeo e poi da quello italiano circa una decina di anni fa, la cultura non esistesse. E’ ignorato, cioè, uno dei cardini delle possibilità di mantenimento delle radici storiche dei popoli e delle comunità nei confronti di quella macchina di distruzione rappresentata dai processi di globalizzazione che sono in corso.
Non è un caso, perché questo cardine della sopravvivenza delle ricchezze immateriali accumulate sul nostro pianeta nei secoli e nei millenni interferisce con gli immensi interessi del grande capitale finanziario che vengono concentrandosi su quel settore trainante dello sviluppo che è oggi la comunicazione.
Mi riferisco alle mille straordinarie e complesse realtà di cui è fatta la storia e la cultura dei popoli. E dunque alla “diversità” come valore e luogo insieme oggettivo e politico di resistenza e reazione ai processi in atto. Ecco allora che il famoso “pensiero unico” cui alludeva una fortunata definizione di “Le Monde”, fotografa oggi la filosofia unitaria che lega i naturali meccanismi di concentrazione finanziaria e unificazione produttiva a una più generale necessità di imporre un senso comune in grado di spegnere o comunque attenuare la carica critica d’ogni cultura autonoma con tutte le sue possibilità di pericolosissimo sviluppo.
E dicendo “filosofia unitaria” parlo soprattutto d’una logica. La stessa che unisce le dinamiche fattuali di concentrazione economica e produttiva alle necessità più generali e necessariamente politiche di creazione d’una domanda sempre più planetariamente estesa e omologa all’offerta.
In realtà quello che è in gioco su questo terreno va al di là della cultura propriamente detta: nel diritto e dunque nella possibilità di scelta dei cittadini europei, nella molteplicità dell’offerta di cultura e dunque nella circolazione delle idee c’è il senso stesso della democrazia. Esattamente come l’unificazione sostanziale dei modelli culturali e ideali proposti secondo i meccanismi vincenti del mercato appartiene a una logica di dominio e passivizzazione che contiene tutti i germi di forme nuove di autoritarismo.
Ne siamo tragici testimoni oggi: la paura dell’ “altro” da te, la disperata solitudine della povertà, l’individuazione del nemico in chi sta al tuo fianco e non sopra di te, la rivendicazione di valori “oggettivamente” superiori, il luogo di nascita come “proprietà”, la costruzione di muri e barriere, la disumanità e la barbarie dei nostri giorni ne sono la dimostrazione più terribile.
Finché non si capirà che la cultura e la conoscenza – dalla formazione al cinema, alla televisione, al teatro, alla musica, all’architettura, alla ricerca, alla letteratura e così via – sono un luogo essenziale del cambiamento; finché la sinistra europea non assumerà la cultura non più e non solo come uno dei tanti punti su cui intervenire ma come luogo strategico e centrale, come strumento della lotta contro il genocidio del mercato, contro il neoliberismo, le disuguaglianze, le discriminazioni, la guerra; finché non si capirà tutto questo lavoreremo sì per una società economicamente più giusta ma non arriveremo al fondo del problema, a quel cambiamento radicale, a quell’altro mondo possibile, oggi necessario come non mai.
Quanto è costata la riacquisizione degli Studi e il ritorno alla gestione pubblica? A quanto ammontano i debiti di Abete e soprattutto quanto è costata allo Stato la sua gestione? Cosa succederà ai lavoratori di Cinecittà? Tante le domande, ma anche le richieste. A cominciare dal “progetto di sviluppo e rilancio” che vogliamo sia reso pubblico e condiviso tra le forze sociali, culturali e professionali che fanno parte del mondo del cinema. Perché ora comincia la battaglia più dura: impedire che la “filosofia” fondamentalmente mercantilistica della legge Franceschini pervada il progetto di rilancio degli studi…
Finalmente gli studi di Cinecittà tornano alla gestione pubblica. Ci sono voluti anni di battaglie e occupazioni da parte dei lavoratori contro la drastica ristrutturazione aziendale messa in atto da Abete, con licenziamenti, cassa integrazione, contratti di solidarietà, eccetera.
Ci sono volute mobilitazioni nazionali e internazionali per salvaguardare gli studi di via Tuscolana e impedirne la cementificazione e con essa la trasformazione di Cinecittà in “sito turistico e commerciale”. Ci sono voluti anni, “morti e feriti” per prendere atto del totale fallimento – istituzionale, culturale ed economico – della gestione privata di un bene pubblico.
Quindi abbiamo vinto. Hanno vinto i lavoratori prima di tutto; hanno vinto tutte le forze sociali, culturali e politiche che sono state al loro fianco in questi anni chiedendo sempre il ritorno alla gestione pubblica come unica soluzione della crisi degli Studi; hanno vinto tutti i cittadini che si sono visti finalmente restituire un loro bene, un bene pubblico.
Prendiamo allora atto della vittoria, importantissima non solo per il cinema e la cultura italiana, ma perché mai come adesso, mai come in questa occasione si tocca con mano la follia delle privatizzazioni di tutto ciò che è “bene e servizio pubblico”; mai come adesso e in questa occasione si dimostra che non sono certo i privati a garantire l’efficienza, la funzionalità e la correttezza delle gestioni aziendali. Per “carità di patria” non accenniamo neanche ai risultati culturali e sociali.
Ma da adesso cominciamo a ragionare del futuro, in modo pubblico e collettivo, per impedire che ancora una volta ci si trovi di fronte a fatti compiuti che passano sulla testa di tutti, lavoratori e cittadini. E per cominciare a ragionare del futuro abbiamo, prima di tutto, bisogno di alcune risposte.
Quanto è costata la riacquisizione degli Studi e il ritorno alla gestione pubblica? A quanto ammontano i debiti di Abete e soprattutto quanto è costata allo Stato la gestione Abete? Cosa è successo – o succederà – con gli studi di Terni? Quanto lo Stato ha deciso di investire nel “progetto di sviluppo” presentato dal presidente e dal consiglio di amministrazione dell’Istituto Luce-Cinecittà al ministro della cultura e a quello dell’economia?
Ma ancora, e forse prima di tutto: cosa succederà ai lavoratori di Cinecittà? Quale è il loro destino all’interno del progetto di sviluppo? Nel comunicato stampa di tre cartelle a questo proposito si dice solo che “punto qualificante del piano è la salvaguardia delle professionalità presenti a Cinecittà”. Già quel “presenti” preoccupa molto e non promette niente di buono.
Per cominciare a ragionare pubblicamente vorrei provare a fare alcune prime riflessioni, a partire solo dal comunicato stampa, perché altro non abbiamo.
E il primo punto è esattamente questo: il “progetto di sviluppo e rilancio” dovrebbe essere reso pubblico e, visto che non lo si è fatto finora, discusso con i lavoratori di Cinecittà e con tutte le forze sociali, culturali e professionali che fanno parte del mondo del cinema e dell’audiovisivo, quantomeno.
Non è una richiesta di elementare percorso democratico, pure sacrosanta. È che non si può avere provocato tali danni umani, culturali e sociali e poi fare finta di nulla. Non si può aver deciso sull’onda tragica dell’euforia per le liberalizzazioni – leggi privatizzazioni – di affidare a un presidente di Banca (e non una qualunque ma la Bnl) la gestione di un bene pubblico del valore di Cinecittà studi e poi avere assistito per anni alla sua distruzione direi sistematica e scientifica senza che nessun governo e nessun ministro muovesse un dito e poi un giorno come se niente fosse, senza neanche dire “abbiamo sbagliato”, annunciare il ritorno alla gestione pubblica. Tutto ciò che è pubblico ha bisogno di trasparenza, di partecipazione e di controllo. E io cittadino voglio sapere quale è il futuro di quel bene che in quanto pubblico è di tutti.
Secondo punto. Nella lunga storia delle battaglie culturali di questo paese Cinecittà è sempre stata individuata come “volano pubblico” della nostra intera produzione cinematografica. Punto di riferimento insostituibile per tutto il cinema non commerciale (non “difficile” come viene in modo orrendo e inaccettabile definito nella nuova legge cinema di Franceschini): per il cinema d’autore, il cinema documentario, il cinema di ricerca culturale e linguistica, il cinema dei giovani autori, il cinema insomma slegato e liberato dalle logiche di mercato e con finalità culturali e dunque sociali. Il cinema che ha fatto grande la nostra cinematografia e anche la nostra industria. È questo che si prefigura in quel piano di sviluppo o piuttosto si sta cercando in modo surrettizio di trasformare gli studi di Cinecittà in un grande volano turistico e di intrattenimento, invece che di cultura?
Terzo ed ultimo punto. Non è difficile leggere tra le righe del comunicato stampa il disegno di trasformazione del nuovo polo Luce-Cinecittà e Cinecittà studi nel nuovo Cnc, in quel Centro nazionale per il cinema richiesto da anni da tutto il settore. Tutto bene quindi? Direi proprio di no perché per il cinema italiano il Cnc è sempre stato un istituto completamente autonomo dal governo e gestito interamente e autonomamente dalle categorie del settore. Qui mi pare si verifichi l’opposto: totale dipendenza dal ministero della cultura e da quello dell’economia e delle finanze; nessun rapporto con le forze sociali, culturali e professionali del settore; gestione totalmente demandata ad un consiglio di amministrazione di diretta emanazione governativa.
Penso allora che non dobbiamo limitarci a rallegrarci della vittoria e pensare che la battaglia sia finita. Adesso comincia una battaglia forse più difficile: quella che tenta di capovolgere quel senso comune dilagante che considera la produzione culturale come produzione di una “merce” utile e omogenea ai meccanismi di mercato e in base al quale si sono trasformate le istituzioni culturali in “aziende” a struttura imprenditoriale le cui finalità sono strettamente ed esclusivamente economiche e commerciali.
La battaglia difficile ora è quella di vigilare ed impedire che la “filosofia” fondamentalmente mercantilistica della legge cinema del ministro Franceschini pervada il progetto di rilancio degli studi di Cinecittà e per vedere invece ribadita e rafforzata la finalità generale e pubblica, dunque sociale e culturale del più grande polo produttivo cinematografico del nostro paese.
Ancora. La battaglia difficile ora è quella di vigilare e impedire che la costituzione di un eventuale Centro nazionale per il cinema avvenga all’interno di una struttura che ha ben altri importantissimi compiti ma certo nessuno dei requisiti che il mondo del cinema ha sempre chiesto per quella istituzione. Ripeto: un ente di diritto pubblico con totale autonomia dal governo e gestione democratica affidata alle forze culturali, professionali e sociali del cinema.
Non credo che in questo paese la coscienza critica sia stata completamente anestetizzata, come pure dicevano oggi alla radio moltissimi ascoltatori a proposito della spiaggia di Chioggia. Anche se il rischio è enorme e i segnali inquietanti. Credo che la battaglia e la determinazione dei lavoratori di Cinecittà dimostrino che è ancora possibile che avvenga quello che si diceva una volta, e cioè che la “lotta paga”, anche se la strada sembra lunga.
Pubblicato su Bookciak Magazine
* responsabile nazionale cultura del Partito della Rifondazione comunista/Sinistra europea
Non c’è una voce dell’intero settore del cinema e dell’audiovisivo che si sia opposta alla nuova legge appena approvata. Il mercato, insomma, ha messo d’accordo tutti. Perché questa è la filosofia di fondo. Non si sostiene più l’opera cinematografica e la creazione artistica, ma le imprese e l’industria. Cosa è successo in questo paese di così devastante nel sistema dei valori delle persone e in particolare delle forze intellettuali per cui non ci si espone più in nessuna battaglia, né di principio né in difesa di diritti?
È il mercato bellezza! E il mercato ha vinto su tutta la linea. È impressionante vedere come Franceschini, cioè Renzi, cioè il mercato abbiamo improvvisamente messo d’accordo tutti. Non c’è una voce di tutto il settore del cinema e dell’audiovisivo che si sia opposta alla nuova legge. Al massimo sono stati chiesti semplici aumenti di finanziamento per alcuni settori di intervento. Improvvisamente tutti dicono che era esattamente questa la legge attesa da anni, anzi da decenni, da tutto il mondo del cinema.
Poiché il testo non è stato modificato nella sostanza rispetto a quello originale di cui avevamo già parlato su Bookciakmagazine, provo solo a contestare alcuni – solo alcuni – degli slogan lanciati dal Ministero e spesso ripresi acriticamente dai giornali, e non solo. A rischio di ripetere cose già dette.
Secondo il Mibact “con il fondo cinema aumentano le risorse del 60%: 150 milioni in più”.
C’è il piccolo particolare che con questo fondo non si finanzia solo il cinema (come è stato fino ad ora) ma anche l’audiovisivo esteso fino a comprendere i videogiochi: vale a dire che perlomeno raddoppiano i soggetti destinatari del fondo. Né si sa quanto sarà destinato a ciascun settore – se per esempio sarà diviso in parti uguali o meno – perché sarà un decreto governativo, e non la legge, a stabilirlo.
Ma c’è di più: avranno la nazionalità italiana e quindi il diritto di accedere al finanziamento le opere (sempre audiovisive e cinematografiche) il cui regista, l’autore del soggetto, della sceneggiatura, la maggioranza degli interpreti principali e degli interpreti secondari, l’autore della fotografia, l’autore del montaggio, l’autore della musica, il costumista, lo scenografo e l’autore della grafica sono di nazionalità italiana o di altro paese europeo. Si finanzieranno cioè con questo fondo film francesi, spagnoli, tedeschi, eccetera purché girati principalmente in Italia e con i componenti la troupe non necessariamente italiani ma residenti in Italia e sottoposti a tassazione italiana. Di quanto ancora si allarga la platea degli aventi diritto? In che senso allora aumentano le risorse?
Ancora: “nasce un meccanismo virtuoso di autofinanziamento”.
Anche questo non è vero. Non è vero perché la legge prevede che i 400 milioni del fondo per il cinema e l’audiovisivo derivino “dal versamento delle imposte ai fini Ires e Iva, nei seguenti settori di attività: distribuzione cinematografica di video e di programmi televisivi, proiezione cinematografica, programmazioni e trasmissioni televisive, erogazione di servizi di accesso a internet, telecomunicazioni fisse, telecomunicazioni mobili”. Vale a dire, per essere chiari, che non c’è nessuna tassa di scopo, nessun onere aggiuntivo per le televisioni e per i colossi delle telecomunicazioni (come è nel sistema francese, per esempio), ma invece oneri aggiuntivi per lo Stato, che rinuncia a una parte delle sue entrate prelevando una quota dell’Ires e dell’Iva – che questi soggetti già versano – per destinarla al cinema e all’audiovisivo. Non sono le imprese a sostenere il cinema e l’audiovisivo ma la fiscalità generale, cioè i cittadini.
Sempre secondo il Mibact “i contributi selettivi sono un aiuto concreto per le promesse del nostro cinema”.
Ci vuole sul serio un bel coraggio nel sostenere che si dà un aiuto concreto per le promesse (?) del nostro cinema destinando il 18 % (ed è il limite massimo, non minimo) dei 400 milioni, vale a dire 72 milioni, a: scrittura, sviluppo, produzione e distribuzione nazionale di opere cinematografiche e audiovisive; opere prime e seconde, giovani autori, film “difficili realizzati con modeste risorse”; start-up; piccole sale; Biennale di Venezia, Istituto Luce Cinecittà e Centro sperimentale di cinematografia; promozione cinematografica e audiovisiva; promozione delle attività di internazionalizzazione del settore, dell’immagine dell’Italia attraverso il cinema e l’audiovisivo; sostegno alla realizzazione di festival, rassegne e premi di rilevanza nazionale e internazionale; promozione delle attività di conservazione, restauro e fruizione del patrimonio cinematografico e audiovisivo; sostegno alla programmazione di film d’essai; sostegno all’attività di diffusione della cultura cinematografica svolta dalle associazioni nazionali di cultura cinematografica, dalle sale delle comunità ecclesiali e religiose (!!!).
Ma di quale aiuto parliamo? Così si uccide definitivamente la possibilità stessa dell’esistenza di una produzione artistica cinematografica.
Ma in realtà questo è il punto di fondo e la base della filosofia di tutta la legge, che non a caso tra gli obiettivi del finanziamento dello Stato indica quello di “facilitare l’adattamento all’evoluzione delle tecnologie e dei mercati nazionali e internazionali”. Infatti, riservata la nicchia del 18% ad un cinema che finora abbiamo definito d’autore o di “qualità” e che adesso chiamiamo “difficile”, tutto il resto è o credito d’imposta alle imprese o finanziamento automatico alla produzione, alla distribuzione e all’esercizio in base agli incassi.
Non si sostiene più l’opera cinematografica e la creazione artistica, ma le imprese e l’industria, e l’intervento dello Stato non sarà più destinato e riservato a far nascere, vivere e far conoscere al pubblico quelle opere che con i soli meccanismi del mercato non vedrebbero mai la luce, ma esattamente all’opposto a premiare quelle opere che più aderiscono a quei meccanismi e quelle imprese che sono già forti sul mercato. Non si incentivano e sostengono le sale che proiettano i film d’autore italiani ed europei, ma al contrario più i film incasseranno più gli esercenti avranno contributi pubblici.
Infine si sostiene che “sparisce la censura di Stato”.
Bisogna dire che fa piacere che finalmente si riconosce che finora si è applicata la censura di Stato. Il problema è però che la censura non sparisce affatto perché si delega al Governo di emanare uno o più decreti (in tutta la legge ne abbiamo contati più di 20 oltre a diverse deleghe al governo) in materia di tutela dei minori sostituendo gli attuali meccanismi con una idea geniale chiamata “responsabilizzazione degli operatori”. Saranno cioè gli operatori cinematografici, sotto il controllo del Ministero, a classificare i “prodotti” per garantire la tutela dei minori. Mi sbaglio o si chiama autocensura obbligatoria?
Allora: dove è finito il Centro nazionale per il cinema per il quale gli autori si sono battuti per anni? Dove è finita la tassa di scopo? Dove sono finite le normative antitrust? Dove sono finite le norme per regolare il rapporto tra cinema e televisione? Come si fa sostenere che questa è la legge da sempre voluta dalle forze culturali, sociali e produttive del cinema? Perché tanto silenzio?
Mi fermo qui. Ma vorrei concludere tentando alcune considerazioni.
Intanto improvvisamente il tanto bistrattato bicameralismo non ha impedito di approvare nel solo giro di un anno una legge di sistema “così attesa”. Verrebbe da chiedersi perché allora fare la riforma della Costituzione e fare finta di abolire il Senato visto che questo governo è riuscito ad emanare leggi che stanno modificando in modo radicale e strutturale il paese facendolo retrocedere di decenni e spazzando via diritti fondamentali e principi costituzionali: dalla legge sul lavoro (mi rifiuto di chiamarla in inglese), alla riforma della scuola, del servizio radiotelevisivo pubblico, dell’editoria, ed ora del cinema. Guarda caso si è intervenuto prima sui diritti del lavoro e poi su tutto ciò che forma le intelligenze e il pensiero critico.
Ma cosa è successo in questo paese di così devastante nel sistema dei valori delle persone e in particolare delle forze intellettuali per cui non ci si espone più in nessuna battaglia, né di principio né in difesa di diritti (fatte tutte le dovute e ovvie eccezioni e chiedendo scusa per il rischio di generalizzazione)? È sufficiente la gravità della crisi economica e il rischio della perdita del lavoro a giustificare l’improvvisa e totale accettazione del senso comune dilagante e la mancanza di opposizione culturale?
Certo non so dare una risposta facile ma credo che è da qui, da un’analisi e da una riflessione su quello che sta accadendo nelle coscienze delle persone che dobbiamo ripartire se pensiamo che questo mondo vada cambiato. E se pensiamo che in particolare alle forze culturali e agli intellettuali spetti il compito enorme dell’elaborazione di un pensiero critico su quale società stiamo – stanno – costruendo.
La mancanza di sicurezza del e sul lavoro. Con l’abolizione dell’articolo 18 e quindi con la paura ad esporsi in battaglie sindacali collettive pena il rischio di licenziamento, ognuno è costretto a pensare alla difesa del proprio posto di lavoro costi quello che costi: anche morire sul o per il lavoro.
Una scuola e una formazione non più finalizzata alla conoscenza e alla crescita individuale e collettiva ma alla preparazione di mano d’opera per il mercato del lavoro.
Una produzione culturale ed artistica uniforme e omologata finalizzata per la maggior parte all’adattamento al mercato e non a risvegliare le intelligenze. La cultura patrimonio solo di chi se la può permettere.
Non più diritti, ma concessioni.
È questo quello che vogliamo?
Humphrey Bogart ne L’ultima minaccia diceva: “è la stampa bellezza, e tu non puoi farci niente”. Pensiamo ormai anche noi di non poter fare niente?
Pubblicato su Bookciak Magazine
* responsabile nazionale cultura del Partito della Rifondazione comunista/Sinistra europea