Stefania Brai*
“Gli Agnelli si riprendono La Stampa e comprano Repubblica”. Questo il titolo e il senso – in realtà “riduttivo” – di quasi tutti gli articoli usciti in questi giorni per dare la notizia dell’acquisto da parte della finanziaria Exor (famiglia Agnelli) del gruppo editoriale Gedi, la società che possiede l’Espresso e Repubblica, La Stampa e Il Secolo XIX, ma anche 13 quotidiani locali (dal Piccolo di Trieste al Tirreno, dal Messaggero veneto alla Nuova Venezia, dalla Gazzetta di Reggio a Il Piccolo, tanto per capirci), una serie di periodici tra cui MicroMega, National Geographic e Limes, una rete di radio tra cui Dee Jai e Radio Capital, una divisione “Digitale” (Tvzap, Dee Jai tv, Maymovies) e infine – tanto per gradire – la concessionaria di pubblicità A. Manzoni e &.
È ovvio che l’attenzione si concentri sul dato più eclatante – l’acquisto di Repubblica e de l’Espresso – che già da solo dovrebbe far preoccupare tutti sullo stato del pluralismo dell’informazione nel nostro paese. Ma se a questo si aggiunge un controllo capillare di fatto del territorio attraverso i giornali locali, le radio e le televisioni e il controllo “economico” attraverso la concessionaria di pubblicità, direi che l’allarme diventa davvero serio.
Serio sul piano dell’occupazione: già a novembre il gruppo Gedi aveva dichiarato per il Secolo XIX un esubero di 37 lavoratori poligrafici su 38 e a livello nazionale l’esubero di 121 poligrafici. E il piano di ristrutturazione degli Agnelli dopo l’acquisizione della Gedi non prevederà certo un incremento di lavoratori poligrafici né di giornalisti.
E serio ancor più sul piano della democrazia reale, sul quel diritto alla libertà di informazione e ad essere informati previsto dalla Costituzione.
Credo però che insieme alle preoccupazioni e agli allarmi occorra interrogarsi sul come si sia potuti arrivare a rendere possibile una tale situazione, su quanto si siano a volte sottovalutate leggi di settore o più spesso la mancanza di leggi che regolino la produzione di cultura e di informazione, sul perché in tutti questi anni ci sia stato un sostanziale silenzio da parte di tutte quelle forze professionali sociali e culturali che avrebbero dovuto quantomeno “vigilare” sul sistema delle comunicazioni e della produzione culturale.
E ancora di più credo sia urgente cominciare a ragionare insieme (forze politiche, sociali, culturali e professionali) sul ruolo centrale dello Stato in questi settori e sull’elaborazione di nuove leggi di sistema non solo all’altezza delle nuove sfide tecnologiche, come si usa spesso dire, ma in grado di garantire realmente a tutti le possibilità concrete di accedere alla produzione e alla fruizione dell’informazione, della comunicazione e della produzione culturale. Perché questo è quello che garantisce la Costituzione; perché questo è quello per cui penso si debba battere qualunque forza realmente di sinistra; perché anche questo è un terreno della lotta di classe.
Pochissimi dati, solo per capire di cosa stiamo parlando, intanto per quanto riguarda l’informazione stampata (piccola ma determinante parte dell’informazione complessiva). Un dato generale, che riguarda l’editoria libraria (fonte Aie) ma che ci fa comprendere qualcosa anche per quanto riguarda la lettura dei giornali e ci dimostra come conoscenza, informazione, formazione e cultura siano elementi inscindibili: tra i 5 maggiori mercati editoriali europei, l’Italia è il paese con il più basso indice di lettura di libri tra la popolazione adulta. Tra i giovani solo l’1 % dedica alla lettura un’ora continuativa al giorno. Il nostro paese è all’ultimo posto per il livello di comprensione dei testi.
Secondo i dati Ads (Accertamento diffusione stampa) relativi al mese di settembre 2019 solo il Corriere della sera e Repubblica vendono nelle edicole intorno alle 200.000 copie, tutti gli altri quotidiani sono ampiamente sotto questa soglia: la Stampa 112.000, il Messaggero 78.000, il Fatto 30.000, il Manifesto circa 8.000.
Le edicole continuano a chiudere inesorabilmente: circa 4.000 in dieci anni. In Toscana hanno chiuso 377 edicole, nel Veneto 321, solo Milano ne ha perse 284. In Sicilia c’è un’edicola ogni 6.476 abitanti, una ogni 5.172 abitanti in Puglia.
Allora provo ad indicare solo alcuni dei temi sui quali iniziare a riflettere e che a mio parere costituiscono dei punti cardine per qualsiasi reale riforma del settore dell’informazione e della comunicazione.
Una vera normativa antitrust, verticale e orizzontale, che impedisca da un lato la formazione di posizioni dominanti (e non solo l’abuso di esse, come prevedono le attuali leggi) e dall’altro la concentrazione nelle stesse mani della produzione e/o distribuzione di diversi “mezzi di comunicazione”: chi edita quotidiani e periodici non può possedere emittenti televisive o radiofoniche né concessionarie di pubblicità; le imprese di produzione e distribuzione cinematografica non possono editare quotidiani o periodici né possedere emittenti televisive, e così per i diversi settori dell’industria culturale.
Leggi di sistema che mettano di nuovo al centro il ruolo sociale dello Stato e quindi l’intervento pubblico a sostegno dell’editoria indipendente, di quella cooperativa, di quella di partito, di quella culturale. La libertà, l’indipendenza e il pluralismo dell’informazione e della comunicazione si garantiscono con regole trasparenti e finanziamenti certi per tutte quelle attività che con le sole regole e i soli meccanismi di mercato non potrebbero neanche vedere la luce e che comunque una volta nate non riuscirebbero a vivere.
E la libertà, l’indipendenza e il pluralismo dell’informazione e della comunicazione si difendono se si garantisce da un lato con il sostegno pubblico la sopravvivenza e la vita dei cosiddetti “punti vendita”, cioè le edicole, e dall’altro la possibilità di accesso di tutti all’informazione: una delle principali cause della diminuzione drastica di vendita di quotidiani è la crisi economica e quindi la difficoltà – spesso l’impossibilità – per i lavoratori di acquistare anche un solo giornale. Il sostegno pubblico deve servire anche a garantire una politica dei prezzi per i quotidiani e i periodici.
E ancora, la libertà, l’indipendenza e il pluralismo dell’informazione e della comunicazione si difendono garantendo il lavoro e i lavoratori: quale libertà può avere un giornalista pagato 7 euro a “pezzo”? spesso senza contratto? Quale libertà può permettersi un giornalista che deve affrontare da solo, con i propri mezzi, denunce intimidatorie?
Ma non si garantisce la libertà di “in-formare” e di essere “in-formati” se non si capisce fino in fondo il nesso stretto tra informazione, formazione, comunicazione e cultura, se si affronta un solo settore dell’industria culturale e non tutto il sistema.
Se non si porta l’intervento pubblico complessivo nella cultura perlomeno all’1 percento del Pil. Se non si restituisce la Rai al suo ruolo di servizio realmente pubblico, riportandola sotto il controllo del Parlamento e sottraendola a quello del governo; se non si lavora per far sì che la Rai torni ad essere volano di tutta l’industria culturale del nostro paese, un’azienda democratica, decentrata e partecipata che possa ridare vita a tutta la produzione indipendente diffusa su tutto il territorio nazionale, pluralistica nella sua offerta culturale complessiva, nel rispetto dei tanti “pubblici”, sganciata dalle logiche di mercato superando l’aberrante distinzione tra programmi “di servizio” e programmi commerciali.
Se non si riformano tutti i settori della produzione culturale ed artistica tornando a finanziare con l’intervento pubblico le opere e non il mercato e le imprese, sostenendo la produzione indipendente. Se non si difendono tutti i luoghi della cultura.
Se non si riconoscono i diritti dei lavoratori di tutti i settori dei beni e della produzione culturale e artistica.
Pubblicato su Transform
* responsabile nazionale cultura del Partito della Rifondazione comunista/Sinistra europea